Il 10 maggio del 1933, nell’Opernplatz a Berlino, i nazisti fecero un grande rogo dei libri sgraditi al regime. Un atto simbolico di annientamento delle culture che si opponevano all’ideologia nazista. Ogni 10 maggio l’Arci organizza in tutta Italia No Rogo!, una serie di iniziative per celebrare il valore del libro simbolo della libertà di espressione di pensiero, contro ogni censura.

È passato solo un anno, ma sembra un secolo. Il 10 maggio del 2019 noi dell’Arci di Como lo abbiamo ricordato, presentando il libro “Colazione a Sarajevo. Frammenti di una guerra” [Luigi Lusenti,, Edizioni Mescalina, 2018, pp. 141, euro 15] in mezzo ai libri, nella sala-biblioteca dell’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta.

“Colazione a Sarajevo. Frammenti di una guerra” di Luigi Lusenti, che racconta i Balcani dal 1991 al 1996, è «l’espressione di uno stato d’animo, un patchwork di situazioni vissute»; «si compone di tante storie dolorose e drammatiche». Parla di incontri con persone e di donne e uomini di cui l’autore si domanda il destino: «Delle persone che il 29 settembre del 1991 avevano partecipato all’ultima giornata di festa e di felicità prima del lungo assedio quante ne sono rimaste in vita? La ragazzina con la bandiera della pace, la maglietta e una felpa arrotolata sui fianchi dove sarà? E la signora con gli occhiali scuri, le meches, la giacca nera e la camicetta chiara? Il bimbo biondo con la salopette che rovista nella borsa del padre? L’uomo con gli occhiali, i calzoni neri, la camicia a fiori e il gilerino nero?»

La lettura di Colazione a Sarajevo è dolorosa, per molti motivi. Per le tante analogie con altre situazioni europee che potrebbero “balcanizzarsi”, perché, come scrive Maso Notarianni nell’Introduzione, svela la rimozione, «una costante nel nostro partecipare ai conflitti»; perché «è stato proprio il conflitto balcanico a far saltare per aria il più moderno e attuale degli articoli della nostra Costituzione», l’articolo 11.

Per me è stata una lettura dolorosa anche per amiche e amici che non ci sono più, ma è una lettura che consiglio comunque, perché fa scoprire come anche nell’inferno ci sono tante donne e tanti uomini che “tra uccidere e morire cercano una terza via, vivere”(Christa Wolf).

Sono grata a Luigi Lusenti per avermi riportata dentro quelle guerre, a storie di donne e uomini che ho conosciuto, a vicende che ho vissuto da lontano ma intensamente, spesso senza la capacità di Luigi che «nei Balcani ha sempre cercato di salvare il suo buon senso». Nel libro ho ritrovato Predrag Matvejević, le mie amiche Donne in nero di Belgrado, Lino, Alex, Raffaella, Giacomo, Nicole, Marina, Giampiero, Tom, Silvia, Beati i costruttori di Pace, Gabriele Moreno Locatelli. Locatelli era un giovane di Canzo (Como), morto nel 1993 a Sarajevo, il 3 ottobre, giorno in cui, quattro anni dopo, nasceva il Coordinamento comasco per la Pace, un sodalizio in cui l’Arci è dalla fondazione. Il Coordinamento ha aperto il suo primo convegno, nel novembre del 1998 proprio raccontando Sarajevo, con don Renzo Scapolo e con due donne venute dalla Bosnia, una cristiana e una musulmana; alla ex Jugoslavia ha dedicato, nel 2005, il convegno “Pace da tutti i Balcani, a 10 anni dagli accordi di Dayton.

Molte delle donne e degli uomini incontrati da Luigi Lusenti, li abbiamo incontrati anche noi a Como, ma le loro parole intense e i loro racconti dolorosi facciamo fatica a ricordarli, perché il ricordo pesa. E perché è faticoso e doloroso accettare che nei Balcani è ancora in corso un lungo dopoguerra di guerra, infatti, come dice Lusenti «le ferite si cicatrizzano, ma il rancore rimane sotto la pelle». E perché è faticoso e doloroso ricordare che l’inverno in Bosnia e a Sarajevo è durato quasi quattro anni, che 10.000 persone sono morte (8.000 solo a Srebrenica), che ci sono stati 50.000 donne e uomini feriti, che in quell’inferno «i vivi invidiavano i morti», che «chi è sopravvissuto è morto dentro». «Sono morta il 15 agosto del 1992. Sono viva perché ho bisogno di raccontare la verità», ha detto unatestimone del Tribunale delle Donne di Sarajevo, che si è svolto dal 7 al 10 maggio 2015. E ci risulta faticoso e doloroso ammettere che prima dell’inverno c’è stato l’autunno e non abbiamo voluto vederlo. Anzi, abbiamo girato lo sguardo altrove.

Lusenti apre il libro con un brano di Pedrag Matvejević in cui si legge che «la guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (tentare di giustificarsi). A un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità». E riporta anche quanto affermato da Paolo Rumiz che parla di «fase di incubazione» e di «intossicazione mediatica». Due posizioni solo apparentemente in contraddizione.

Lusenti è un giornalista e nel libro parla approfonditamente del ruolo dei media prima che iniziasse «la guerra fatta in casa» (perché fare disinformazione è un crimine di guerra), dell’irresponsabile propaganda e narrazione a sostegno della guerra durante gli anni di guerra, ma anche di chi la guerra ha cercato di raccontarla con responsabilità, dei giornalisti morti per realizzare dei reportage, e di chi, a Milano, per offrire «spazi di comunicazione che non fossero solo la spettacolarizzazione della guerra», ha organizzato addirittura un’agenzia stampa, Est/Ovest, fondata da Arci, Ordine e Associazione dei giornalisti, Cgil, Cisl, Uil.

Non fa sconti al circo dei giornalisti, ma neppure ai riti stanchi dei pacifisti, che riguardano anche tante e tanti di noi. Racconta del conflitto nato nel movimento pacifista italiano dopo la disperata richiesta di Alex Langer di «un intervento militare chirurgico». Una scelta fallimentare dalla quale Alex non riuscì mai a riprendersi, tanto da decidere di mettere fine alla sua vita.

Parla dei disertori, tanti, in tutte le nazioni, e del sostegno ricevuto. Parla del ruolo delle donne, le Donne in nero di Belgrado, la madre coraggio Milka Zulicic, … Forse avrebbe meritato una maggiore attenzione quella che Nicole Janigro chiama la “novità storica”: le donne raccontano – in lettere, diari, poesie -, in tempo quasi reale, la violenza e la sopravvivenza. Le reti di donne sono state durante i vari conflitti protagoniste di azioni di solidarietà concreta, ma anche grembo simbolico per accogliere i racconti dell’orrore delle vittime di stupri e genocidi. I luoghi delle donne sono stati, e continuano ad essere, luoghi di resistenza all’annientamento di valori civili, ma anche di riflessione politica acuta e coraggiosa, di elaborazione del lutto e richiesta di giustizia, come testimonia Staša Zajović.

Per avere giustizia non basta il Tribunale per i crimini di guerra dell’Aja, a cui il libro dedica più pagine; per denunciare e testimoniare i crimini di guerra (e del dopoguerra) contro le donne, è necessaria una giustizia femminista. Così dal 7 al 10 maggio 2015 si è svolto a Sarajevo il Tribunale delle donne per la ex-Jugoslavia, e noi Donne in nero ci siamo state insieme a moltissime altre donne di tanti paesi.

Nel libro ci sono molti rimandi ad altri luoghi (a Gerusalemme, a Gaza) e al presente: la drammatica condizione dei profughi di allora che hanno gli stessi occhi dei profughi di oggi, spesso di bambini. La domanda di allora, «Ma perché venite tutti qui?», è la stessa di oggi e a me pare che anche la risposta, sia la stessa che Lusenti dà nel libro: «sparano, bruciano le case, ammazzano, non c’è da mangiare: ecco perché scappano».

Concludo con un invito a Luigi a scrivere un altro libro per raccontare Telefonski Most, «il granello di sabbia capace di bloccare il meccanismo più sofisticato», secondo Petrag Matvejević. Penso che la bella esperienza di un ponte telefonico tra Serbia e Croazia, passando per Milano, meriti di diventare memoria fertile. [Celeste Grossi, ecoinformazioniArcibook Lombardia]

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