Pnrr: risorsa glocale da strappare al profitto



Venerdì 8 aprile, a Bergamo, eQua entra nel vivo con due plenarie parallele. Al Teatrino tascabile e online su Zoom e Facebook si è tenuto Pnrr, welfare locale, democrazia del comune, incontro sulla dimensione economico-sociale della lotta alle disuguaglianze. Relatori della conferenza Andrea Morniroli del Forum disuguaglianze e diversità, Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria del Ministero dell’economia e delle finanze, Sandro Busso, professore di sociologia politica a Torino, Marco Bersani di Attac, Carla Cocilova e Jacopo Rosatelli, assessori alle politiche sociali rispettivamente dei comuni di Pontedera e Torino, Brando Benifei, europarlamentare, e Luigi Maraschi della Biennale Prossimità.

Ad introdurre il confronto della mattinata, ospitato in una sala riguadagnata da un antico chiostrino bergamasco, Francesca Coletti dell’Arci. Il Pnrr è una risorsa di portata storica per il paese, paragonabile forse solo al piano Marshall, ed è un’occasione di rilancio in uscita dalla crisi pandemica. Da qui alcuni spunti per i relatori: nel discutere del Pnrr, bisogna ricordarsi perché è nato, a chi è rivolto e quali sono gli obiettivi di un fondo destinato alla ricostruzione. Dopo un evento che ha dimostrato che un denominatore comune dell’umanità, al di là del reddito e della forza politica, è la fragilità, bisogna pensare a queste enormi somme in una prospettiva umana e sociale, non diseguale né discriminatoria.
D’altro canto, bisogna riflettere sul rischio che questa manovra sia più digitale che concreta; questa destinazione più virtuale che sociale e comunitaria è esito diretto di una progettazione in cui è mancato il confronto con la società civile ed il terzo settore. Bisogna allora riflettere su vie trasversali per influire sulla concretizzazione di ciò che per ora è solo teorizzato.
Il terzo punto, in questo progressivo focus sulla dimensione empirica del Pnrr, riguarda i comuni, la loro capacità di spesa da un lato e quella di creare opportunità locali dall’altro.

Sulla scia di queste riflessioni ha preso parola Andrea Morniroli. Difficile rispondere in pochi minuti alle domande di Coletti. Si può dire però che il Pnrr è uno strumento che si può leggere verso tre direzioni: un ritorno alla normalità, una svolta autoritaria oppure un futuro migliore e più equo. La strada scelta sembra la prima, di certo non la terza, sicuramente non la lotta alle disuguaglianze.
Le disparità sociali derivano da tre fattori, primo dei quali la perdita di potere del lavoro, che non significa più uno status qualificante ma diventa simbolo di precarietà e sfruttamento. Ma va anche rilevata l’inversione delle politiche pubbliche, che sono ora all’insegna della sottrazione e della distruzione del paradigma della cura in nome del contenimento. Messa a profitto della fragilità, distruzione delle istituzioni e del benessere strutturale e patriarcato nei servizi (l’assistenza è un lavoro delegato alle donne) sono i tre perni di questo secondo problema.
Infine, il senso comune è cambiato, in senso antisociale e classista: la società occidentale è all’insegna della discriminazione e della guerra ai poveri, ritenuti falliti nel sistema che dà possibilità a tutti e persino problema estetico urbano. Da questa stereotipizzazione della miseria si arriva a perdere la persona e si instaurano categorie che alienano le soggettività e le vite: puttana, povero, clandestino (ma i profughi ucraini no) sono ormai etichette che aiutano a tenere a distanza dalla pulizia dei benestanti, anche ada quelli di sinistra.
In tutto ciò, la pandemia ha estremizzato i poli socioeconomici e il Pnrr rischia di rendere ineluttabile la rottura dei legami sociali sciolti dal neoliberismo. Parlare di soldi e società senza interpellare gli enti che nel sociale lavorano, di coloro che operano tra e per le persone emarginate dal sistema, è un vuoto ossimoro, un punto documentario sterile e senza alcun senso per chi avrebbe realmente bisogno delle risorse messe sul tavolo.
Le cooperative e le associazioni, da par loro, devono riflettere sulla loro capacità di equilibrare obiettivi statutari e struttura d’impresa e sul rapporto tra democrazia interna ed esterna nei contesti in cui operano; soprattutto, il terzo settore deve chiedersi se la propria azione è realmente abilitante, se davvero dà voce alle persone che mira ad integrare o se invece ne appropria facendone proprio titolo associativo-personalistico.
Solo ponendosi questi problemi e facendo rete unita si può modificare l’azione e la narrazione del corpo associazionistico, ponendosi come interlocutore necessario per qualunque istituzione od entità che intenda parlare o fare progetti anche economici che includano nei propri testi la parola “comunità”.

Online su Zoom è intervenuta poi Maria Cecilia Guerra, che ha rilevato l’importanza del welfare in un momento storico così cruciale. Il Pnrr però non può essere considerato come uno strumento miracoloso in un contesto economico-sociale che, come rilevato da Morniroli, non si può definire altro che dilaniato e connotato da disuguaglianze in verticale (il nord è nettamente più avantaggiato del sud) quanto diffusamente, nella disparità tra piccoli e grandi comuni.
L’innovazione per pochi non è stato, dagli anni ’90 a questa parte, un fattore positivo sul piano della comunità e per questo è necessario vagliare il Pnrr nei suoi usi e nelle sue potenziali criticità. Alla base di un uso programmatico e realmente incisivo sui diritti e le opportunità di tutte e tutti c’è il superamento della visione paternalista che vede il welfare come mera assistenza.
D’altra parte, non si può pensare che la politica sia del tutto antagonista ad un uso benefico delle risorse, che sia completamente estranea ai territori. Bisogna però, e questo è stato il nodo centrale della conferenza nel suo complesso, dialogare tra centri di potere e territori. Un’interazione che passa dai bandi, dalla progettazione comune e, chiaramente, da una complicità virtuosa nella gestione di fondi e progetti come quelli contenuti nel Pnrr.
Al di là della teoria, però, la chiave è l’attuazione che, comunque, non sarà una messa in pratica della distruzione integrale delle disuguaglianze. Finché non si lavora criticamente sul sistema, anche il più proficuo rapporto tra istituzioni ed enti sociali non potrà che rendere solo più vivibile quella che di fatto è una gabbia politica e culturale prima ancora che economica. Certamente, fare passi indietro con la scusa delle molteplici crisi attuali e dell’attaccamento alla normalità non è pensabile.

Foto Corriere.it

La quota politica del dibattito è proseguita col collegamento con Brando Benifei, europarlamentare. La Commissione europea ha emanato una raccomandazione chiara ma trascurata riguardo il Pnrr: è fondamentale coinvolgere entità locali e parti sociali nell’attuazione del piano. Parlare di esclusione dei comuni a monte è dunque scorretto, ma bisogna cogliere la dimensione anche politica implicita in questo piano europeo che ha nel next generation Eu una componente di sviluppo evidentemente improntata ad un’idea di Europa nel mondo che risponde ad una visione non meramente economica. Il rinnovamento è necessario e la co-progettazione è un passo centrale, a livello locale ma anche internazionale, all’interno del vecchio continente. Cooperazione su vari piani ed abilitazione delle professionalità e delle parti in causa per creare cambiamento positivo: queste in sintesi le intenzioni europee alla base del Pnrr.
Il punto non emerso dal discorso di Benifei, però, resta il paradigma di riferimento di queste azioni, nonostante sul piano del capitale quotidiano parlare di ambiente, lavoro, giovani e terzo settore sia un passo avanti verso la sostenibilità sistemica che crea quelle disuguaglianze in merito a cui si sta lavorando ad eQua.

Come nella plenaria introduttiva c’è stata la “lezione sulle disuguaglianze” di Pianta, così sul Pnrr la voce accademica è stata quella di Sandro Busso. “Investimento” è una parola che assume significato solo a condizione che ci siano ritorni positivi di ciò che si immette nel sistema. Il Pnrr parla di investimenti, ma è molto parco nello specificare concretamente i suoi obiettivi economici: si può parlare certo delle povertà collaterali, culturale, sociale, sanitaria, ma non si può trascurare il nucleo economico. Strappando un applauso all’uditorio, Busso ha rilevato che il bisogno fondamentale e primario di chi è povero è che ha bisogno dei soldi. Il Pnrr dovrebbe parlare di quello in primo luogo.
Simile il discorso per i diritti, riferiti soprattutto a chi non esprime il proprio potenziale trascurando chi il potenziale non lo ha. Il Pnrr ha un sottotesto meritocratico che abbandona chi non ha i mezzi per farcela e dunque diventa una giustificazione delle disuguaglianze nella prospettiva prettamente liberista che ci siano pari opportunità in partenza. I più lungimiranti, ad esempio lo Young de L’avvento della meritocrazia hanno intravisto la trappola implicita in questa lettura dell’esistenza sociale. Il Pnrr si inserisce nel modello di governo della (non lotta alla) povertà che vede i poveri come necessari e quindi non è realmente contro le disuguaglianze.
Infine, garantire i diritti non andrebbe visto come assistenzialismo: restituire alle persone ciò che dovrebbero avere in quanto persone non è assisterle; il diritto non dovrebbe essere subordinato alle performance ed erogato in base a capacità, potenzialità o risultati. In un intervento tecnico quanto pregnante, che ha ripreso e messo al lavoro i concetti ancora a cavallo tra teorico ed empirico emersi dai due interventi d’apertura, il docente di sociologia politica torinese ha poi mostrato come nel piano il pubblico è legittimato solo in funzione del privato e del mercato, logica che porta a ridurre la qualità di servizi e lavoro.
Parlare di progettazione significa discutere i mezzi, non i modelli: voler discutere solo la progettazione, da parte delle associazioni, significa influire sui mezzi e basta, perdendosi la dimensione politica e quella dei valori alla base di ciò di cui poi si dibatte. La partecipazione non può ridursi a mero rituale.
Ultimo elemento, le cittadinanze separate che emergono dalla progettazione del welfare: è sempre più difficile trovare punti comuni, azioni utili per tutti, leggi che riguardino tutti, in una società sempre più frammentata e quindi sempre meno fertile per un’azione politica efficace.

Marco Bersani ha proseguito l’incontro abbandonando il Pnrr (senza però omettere che la parola “concorrenza” appare nel testo circa 30 volte più della parola “diseguaglianze”) per tornare al discorso sui comuni. Un intervento dunque che fa da cerniera tra la parte globale e quella territoriale della conferenza e mette al centro le istituzioni locali ed il loro rapporto con i cittadini.
Il settore pubblico è una delle grandi vittime del neoliberismo, che lo ha reso disfunzionale e ha reso fonte di profitto anche i servizi che dovrebbe erogare (un esempio iconico di questa doppia azione negativa sono i prezzi esorbitanti per mezzi pubblici fatiscenti e con orari a dir poco precari). La ricchezza collettiva è quantificata in ottica di privatizzazione attraverso la trappola del debito pubblico come giustificazione delle politiche di austerità. Se la priorità è far quadrare i conti di fronte alle superpotenze economiche pronte a fare razzie delle risorse non si può che arrivare ad uno stuolo di sindaci pronti a privatizzare pensando che sia quello il compito che spetta a chi ha quella carica.
Il punto di Bersani è chiaro: non si può pensare che la politica parli di servizi pubblici e nel frattempo discuta il ddl concorrenza. O si torna alla comunità, o si accetta il sistema di profitto ammettendo con chiarezza la via intrapresa, non c’è via di mezzo (ecco quindi sviscerata la contraddizione implicita nel discorso di Benifei, ma anche nell’intervento di Gori della conferenza d’apertura del 7 aprile).

“L’antitrust controlla i progetti comunali? Io rimango basito, ma non credo sia tanto in accordo con la Costituzione…”

Dall’altra parte ma in connessione con il globale, il locale ha preso parola con gli assessori alle politiche sociali di Pontedera e Torino.
Carla Cocilova ha raccontato l’esperienza toscana del “comune della Piaggio”, multietnico e complesso, che ha dovuto fronteggiare un ulteriore momento di criticità con il Covid, che ha aumentato le difficoltà sociali, il lavoro nero, l’indebitamento e la guerra tra poveri sul crine del discrimine della provenienza. Tra i vari apparati assistenziali forniti, Pontedera ha avuto la forza politica di internalizzare i servizi, rendendoli dunque più distanti dalla dimensione di profitto e riavvicinandoli alle esigenze della popolazione.

Jacopo Rosatelli, portando l’esperienza torinese, ha raccontato di come il capoluogo piemontese abbia cercato di ammortizzare i passaggi saltati dal Pnrr sul piano locale chiamando tavoli progettuali, che però non hanno dato sufficiente spazio agli enti, e cercando di spingere le risorse economiche verso la cittadinanza e, specificamente, i diritti dei lavoratori.
Non si poteva non parlare del patto Bertolino, che aveva un’implicita spinta privatizzante in cambio dell’aiuto del governo Draghi, gestito a Torino come aumento dell’Irpef, rendendo proporzionale la tassazione. Questa manovra è la punta dell’iceberg di una visione di comunità che non divide tra, riprendendo Morniroli, cittadini buoni e cattivi, che evita l’etica (se così si può definire) del decoro urbano e cerca di ragionare sull’origine dei fenomeni sociali senza piegarsi alle esigenze estetiche classiste della borghesia medio-alta. La società va ripoliticizzata ed i movimenti contro le disuguaglianze devono darsi punti fermi, incontri fissi per farsi riferimento per la cittadinanza.

Un’ulteriore tappa di questo movimento a cui Rosatelli ha fatto appello è la Biennale della Prossimità, presentata in chiusura da Luigi Maraschi. Prossimità è cooperazione, vicinanza, condivisione, sostenibilità ed integrazione socioambientale: saranno questi i temi promossi dall’incontro, quarto dal 2015, che si terrà a Brescia dal 10 al 12 giugno.

L’espressione utilizzata dall’ultimo relatore, “recuperare la relazione”, è più che un intento umano e puramente solidale; è un assunto politico che richiama alla comunità come riferimento dell’azione quotidiana ma anche di quella politica, economica e, in ultima istanza, globale. Il rapporto tra questi due poli interrelati ma distinti, località e globalità, ha portato i teorici a parlare di glocalità: è forse questo il concetto che più di tutti si è imposto in una plenaria che ha spaziato dal Pnrr al comune, dall’Europarlamento alla quotidianità di Pontedera e Torino. L’elemento comune è la società e il bersaglio critico le disuguaglianze ed il neolioberismo.
eQua prosegue nel pomeriggio dell’8 con incontri tematici e con un’altra assemblea collettiva: La diseguaglianza e la guerra sono scelte politiche. [Pietro Caresana, ecoinformazioni]



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