eQua 2023/ Appunti su disuguaglianze e povertà

La seconda giornata di eQua 2023 si è aperta, sulla falsariga della plenaria introduttiva, all’insegna dell’approfondimento di quegli ambiti più colpiti dalla povertà. Appunti su disuguaglianze e povertà ha portato a riflettere sulle difficoltà di accesso alle cure, sul lavoro povero e sul rapporto tra povertà e genere.

Curarsi sarà un lusso? Povertà e sanità

Nel presentare il primo panel della giornata e Marco Caldiroli, presidente di Medicina democratica, Massimo Cortesi ribadisce la necessità di rivolgersi, come associazione, a chi vive la sanità nel quotidiano col proprio lavoro e con le proprie ricerche per meglio sviluppare le proprie riflessioni e le proprie proposte. Dalle liste d’attesa alle case di comunità (che da disegno positivo nell’ambito del Pnrr sono diventate spesso «gusci vuoti»), fino alla fuga del personale sanitario e ai tagli sempre maggiori al sistema sanitario, la domanda sempre più opprimente è: curarsi è diventato un lusso?

Per capire meglio la situazione attuale è opportuno, secondo Marco Caldiroli, indagare nel passato, partendo dalla riforma sanitaria del ’78, che vede la totalità delle parti politiche al lavoro per cambiare la realtà allora presente, con il sistema delle mutue (legato ai contratti nazionali, impari) che lasciava scoperta una parte ampia della popolazione.
Nazionalizzando e rifunzionalizzando la sanità – insieme alla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e alla  legge 180 che decretò la chiusura dei manicomi – si arriva ad universalizzarla, rendendola gratuita («un fisco ben fatto e proporzionale ha una funzione essenziale nella tutela e nel benessere di cittadini e cittadine») e partecipata; infatti, essendo collegata alla riforma degli enti locali – su cui pure si dovrebbe tornare a lavorare, rinsaldando il rapporto tra stato e istituzioni locali – la salute diventa parte della tutela di una persona a tutto tondo e non soltanto nel momento in cui sorge una malattia, arrivando a comprendere l’educazione sanitaria collettiva, la prevenzione e la riabilitazione, l’educazione alla sicurezza e all’igiene negli ambienti di lavoro, la formazione professionale degli operatori, la tutela degli infortuni.
Soprattutto la prevenzione (che dalle sfumature ambientali, fino al lavoro e alla vita quotidiana) diventa essenziale: non generando profitto (a differenza delle prestazioni mediche), è al tempo stesso un «costo mancato» per lo stato.

Anche la pandemia ha mostrato come, regionalmente, quei sistemi sanitari meno centralizzati abbiano funzionato meglio rispetto a quelli «ospedalocentrici» come la Lombardia. Con il Ddl 552/92, il cosiddetto “decreto De Lorenzo”, si è aperto senza remore al privato, permettendogli di entrare nel cuore del sistema sanitario e corroderlo con una concorrenza spietata, diventata tristemente esemplare in Lombardia, dove l’attività privata è stata negli anni non solo incentivata, ma anche fortemente accompagnata: l’aziendalizzazione della sanità ha concentrato nella «monarchia» dei direttori generali tutto il potere decisionale, spostando verso il pareggio di bilancio l’orizzonte degli obiettivi, che invece dovrebbero essere convergenti verso l’attenzione medica, epidemiologica e di studio delle statistiche per implementare, appunto, le azioni reali di prevenzione. Tenendo davanti agli occhi il borsellino invece che la cura, è inevitabile tagliare posti letto, posizioni lavorative, ricerche: ancora la Lombardia ha il triste primato di Rsa, laboratori di analisi e medicina sportiva come primi «attrattori di clientela» e non più come prestazioni essenziali per la cittadinanza.
Medicina democratica ha nel corso degli anni denunciato, spesso sostenuta con determinazione da Arci, diversi esempi tossici e dannosi di questa pericolosa tendenza: dalle lunghe liste di attesa e i call center quasi “pubblicitari” di Multimedica, fino alle tariffe agevolate – sponsorizzate dal sindaco – per i residenti di Castellanza offerte da aziende private.
Lo spostamento di risorse dal pubblico al privato porta inevitabilmente un’avanzamento nella diseguaglianza, soprattutto nell’accesso al sistema sanitario: ancora l’evidenza delle liste d’attesa “biblica” è la cartina tornasole delle sempre più ridotte disponibilità economiche per una grande fetta di popolazione, che ha una possibilità bassa o nulla di poter assolvere a tariffe private (come prestazioni o come assicurazioni sanitarie).
Ma allora come si inverte la tendenza? Come si arriva a contrastare la forza di gravità dell’effetto a cascata sempre più dirompente?
Riformare il sistema sanitario nella situazione politica attuale, secondo Caldiroli, non è possibile in questo momento senza la pressione «dal basso» dell’attivismo, anche associativo. Le segnalazioni da parte della Corte dei conti nel bilancio 2022 della regione lombardia sono emblematiche: da una parte la “bacchettata” sulle carenze di investimento e cura nel campo della sicurezza sul lavoro, dall’altra la segnalazione di come tesoretti utilizzabili – e inutilizzati – per la sanità pubblica testimoniano una non più preminenza di questa rispetto al privato, e sono ancora una volta il preoccupante campanello d’allarme di un mancato interesse (e ascolto) da parte di chi governa di esigenze che invece dovrebbero essere alla base della società. Forse, conclude Caldiroli, informare, denunciare, manifestare e scendere in piazza (come lo scorso 4 novembre) servirà a ricordarglielo.

Il lavoro povero ai tempi delle disuguaglianze
Giulio Marcon di Sbilanciamoci e della campagna di giustizia finanziaria Tax the rich, Marianna Filandri, docente di sociologia economica all’Università di Torino, e Vito Di Santo, assegnista di ricerca all’Università di Milano, hanno dialogato sul rapporto tra povertà e lavoro. L’occupazione, a fronte di salari bassi e prezzi in continua crescita, non è più garanzia di resistenza al di sopra della soglia di povertà assoluta. Lo stesso lavoro appare sistemicamente diseguale: i e le lavoratrici povere sono sempre meno abbienti, perdono potere d’acquisto e sono precarizzati, mentre le persone ricche che lavorano hanno visto un aumento del 300% dei salari negli ultimi quarant’anni. Di fronte ad una disparità congenita del meccanismo occupazionale italiano la campagna Tax the rich, presentata da Marcon, fa leva sulla necessità di tassare la porzione di popolazione che nonostante le varie crisi vissute in questi ultimi anni si è arricchita sempre di più.
I corpi intermedi e i sindacati su tutti devono attivarsi smettendo di o quantomeno cambiando il modo di relazionarsi al comparto industriale-padronale, premendo per salari giusti, per una maggiore equità fiscale (non tasse uguali per tutti, ma tasse proporzionate al reddito) e per un welfare che assicuri i servizi essenziali a tutti, a partire da istruzione e sanità. Tutto ciò non va visto come pacchetto di misure in perdita in quanto assistenziali, bensì va letto in prospettiva come creazione di posti di lavoro, di benessere sociale e di sviluppo del paese.

Filandri ha sottolineato il fatto che per scardinare la narrazione dell’assistenzialismo bisogna partire dal discorso del lavoro povero. Discontinuità e precarietà, difficoltà a trovare un lavoro a tempo pieno (a fronte di impieghi in lavori parziali che non conciliano vita e lavoro) e bassi salari sono i tre elementi che rendono possibile che nonostante l’occupazione si versi in povertà.
La povertà però non è un fenomeno individuale, bensì familiare: le persone a carico diventano l’ago della bilancia che fa cadere in indigenza il nucleo familiare. Sono principalmente gli uomini i lavoratori poveri, dato che essendo il lavoro femminile spesso un secondo reddito è più probabile che sia povera una famiglia dove lavora solo un membro (solitamente maschio) spesso il lavoro femminile porta ad essere non povera la lavoratrice. L’assenza di welfare facilita, evidentemente, le dinamiche di impoverimento familiare.
Anche ammettendo, e secondo la relatrice non è vero, il lavoro sia la salvezza rispetto alla povertà, un mercato del lavoro de-regolato, fondato sul ribasso e precario porta ad una società insicura per via delle tante morti sul lavoro e della non professionalizzazione di chi lavora, costretto a continui spostamenti da una mansione all’altra. Ciò che frena dall’intervento su disuguaglianze e povertà da lavoro, ciò che spinge la premier Meloni a dire che non conviene intervenire sul lavoro povero, è il fatto che c’è chi su questa situazione fa profitto.

Il lavoro povero è anche generazionalmente asimmetrico, e proprio del trinomio lavoro-povertà-giovani ha parlato Vito Di Santo. Un dislivello intranazionale, col lavoro che è più accessibile per i giovani a nord piuttosto che a sud, e che si correla al divario al ribasso dell’Italia rispetto all’Europa per istruzione e partecipazione politica giovanili.
Come accennato da Cerruti nell’incontro di giovedì 13, la stagnazione dei salari e la corrispondente inflazione in continua crescita unite ad un progressivo smantellamento del lavoro stabile, promosso in nome della flessibilità anche dai governi “di sinistra” di D’Alema e Renzi hanno segnato la difficoltà di indipendenza dei giovani. È necessario pensare ad una politica innanzitutto affittuaria che permetta l’uscita di casa ai giovani, soprattutto studenti e studentesse che, a livello universitario, ricevono pochissimi finanziamenti. Il problema del diritto alla studio, non a caso, in Italia è tendenzialmente debole.
Conseguenza secondaria di tutto questo è un’età media di tre anni maggiore rispetto alla media europea (32 anni contro 29) per quanto riguarda l’età in cui si hanno figli. Per contro, la risposta a tutte le difficoltà di realizzare un qualsiasi piano di vita è l’aumento delle persone giovani che né lavorano né studiano né cercano un impiego; solo Turchia, Montenegro e Macedonia hanno più persone dell’Italia rientranti in questa categoria.
L’azione di garanzia ai giovani ha cercato, con redditi e misure specifiche, di contrastare questo fenomeno. Ma c’è il problema normativo della gestione delle politiche attive, appannaggio delle regioni dal 2000 e dunque estremamente disomogeneo sul territorio nazionale. È però da sottolineare il fatto che c’è correlazione tra ritorno occupazionale e origine, non tra titolo di studio e occupazione.
Oltre alla dimensione economica, è anche emerso dagli interventi del pubblico il fatto che il sistema della precarizzazione nega anche la possibilità associazionistica a lavoratori e lavoratrici: la necessità dell’iperlavoro e di pendolarismi lunghi negano la possibilità di frequentare le attività associazionistiche e sindacali. Il tempo di lavoro, è stato detto dal pubblico, ha assorbito il tempo di vita al punto da negare l’attività sociopolitica legata ma libera rispetto al tempo produttivo.
Luciana Castellina ha risposto, sempre dalle sedie del teatro Filo, sul problema della rappresentanza sindacale sottolineando come la finanziarizzazione e la delocalizzazione abbiano indebolito fortemente le piccole-medie imprese, colonna portante dell’economia e delle realtà sindacali italiane, indebolendo di conseguenza un sindacato (soprattutto la Cgil) che al momento pare effettivamente inerme rispetto al sistema politica-lavoro internazionale.

Di Santo ha sottolineato che per contro anche il governismo dei partiti tradizionalmente rappresentanti la sinistra ha avuto un peso nell’incapacità partitico-sindacale di far fronte alle dinamiche economiche globali. Per ridare tempo all’associazionismo potrebbe aiutare ridare tempo alle attività formative sociali così come si dà spazio a quella accademica.
Filandri ha invece preso parola sulla settimana corta come misura di aumento indiretto dei salari, cosa che tra l’altro andrebbe a favorire migliori prestazioni sul luogo di lavoro. Il problema del lavoro però non può essere delegato solo ed esclusivamente ai corpi intermedi, bensì è una questione politica. Governo ed imprese dovrebbero concentrarsi sul benessere pubblico, non sul profitto, come invece stanno facendo da decenni a questa parte.
La svalutazione del lavoro, insomma, è stata uno dei mezzi principali nella competizione concorrenziale globale. Regolamentazione delle misure di delocalizzazione, tassazione agli extraprofitti e proporzionata al reddito, de-aziendalizzazione del sapere universitario e azione dei corpi intermedi, allora, sono alcuni dei punti principali di un’azione che dev’essere politica e sociale per cercare di riportare equità in un settore attualmente distrutto dalla coalizione neoliberista tra politica ed imprenditoria.

Prendiamoci la luna. Disuguaglianze di genere


Il compito di chiudere la mattinata spetta a Celeste Grossi, responsabile Arci nazionale per le politiche di genere, e Barbara Leda Kenny, attivista e coordinatrice di ingenere.it (rivista online che raccoglie approfondimenti, ricerche e proposte economiche e sociali secondo una prospettiva di genere). La questione della disparità di genere attraversa trasversalmente ciascun tavolo di lavoro e discussione di eQua, perchè, citando Simone De Beauvoir, «basta una crisi (economica, politica o religiosa) per mettere a repentaglio i diritti delle donne».
La povertà esiste, e pesa particolarmente sulle spalle delle donne: disoccupate, lavoratrici (con part-time involontario e non solo), spesso con un altissimo livello di istruzione e competenze specifiche “dimenticate” dal mondo lavorativo, con la responsabilità della cura familiare scaricata sulle loro spalle dalla società. Eppure la cura può diventare, in un’ottica femminista benefica per chiunque, rivoluzionaria e risolutiva.

Barbara Leda Kenny parte da qui, enfatizzando la divisione profonda che attraversa la società tra casa/cura («regno riproduttivo»), ambiente femminile “per eccellenza” secolare, e società, territorio maschile («regno produttivo»); un fattore culturale, che in Italia ha una connotazione identitaria radicata. Il 21,5% delle donne italiane non ha una una indipendenza economica che permetta loro di poter decidere e gestire le risorse del proprio nucleo familiare, condannando di fatto più di una donna su cinque ad essere sottomessa e soggiogata in una forma di violenza impercettibile perchè normalizzata, per cui il potere monetario ed economico viene usato per ridurle ad uno stato di sottomissione, schiacciandone possibilità, capacità e aspettative.
La pandemia prima e lo scoppio di ulteriori nuove guerre poi ha poi contribuito a portare una situazione già preoccupante indietro di anni in termini di diritti e parità di genere, in Italia come nel resto del mondo; la crisi economica si lega alla demografia in cambiamento con una natalità in decrescita, solo parzialmente compensata dalle seconde o terze generazioni di immigrati e immigrate, alle quali però ci si rivolge come lavoratrici, ancora, solo per mansioni di cura e assistenza.
Come fare per rompere questa dicotomia e estendere, sottolineandone il valore, l’azione di cura ad ogni ambito delle aspettative sociali?
Sicuramente, come sottolinea Kenny, affrontando la cura (non solo infantile, ma soprattutto per le persone in età avanzata) come oggetto di riforme e regolamentazioni invece di delegarlo e demandarlo “automaticamente” alle donne. La condivisione passa attraverso la redistribuzione delle responsabilità economiche e familiari – e guardando all’Europa si possono scorgere gli effetti benefici di iniziative politiche e governative in proposito – in modo da poter riacquistare tempo libero e energie necessarie per occuparsi dei propri inteessi, come già affrontato ampiamente nel corso della mattinata.
Per questo ci vuole un reddito – e, aggiunge Celeste Grossi, ci vuole un reddito di autodeterminazione per affrontare un dilagante impoverimento economico, ma anche e soprattutto sociale.
Per questo, soprattutto, ci vuole una decisa virata degli investimenti attuali (come le spese belliche) verso progetti di ben altro valore sociale: interventi volti a rendere persone anziale più indipendenti dalle cure familiari, una attenzione anche nelle infrastrutture urbane sono solo alcuni esempi per cui investimenti di questo tipo non servono solo a «liberare il tempo delle donne» ma a rendere più ricco e fertile il benessere collettivo della società tutta.


Tra divisione delle pulizie del bagno “eque”, riflessioni sulle ulteriori ramificazioni transfemministe (come ad esempio nel tema delle cosiddette “carriere alias”), le difficoltà affrontate anche a livello istituzionale (l’altra faccia della medaglia) nel concertare politiche di genere in un programma di azioni e riforme politiche, e una rivendicazione appassionata sulla cura vista non solo come condanna ma come diritto (anche rispetto ad aspettative non esclusivamente lavorative), è evidente come le questioni di genere ancora irrisolte si uniscano in maniera inscindibile e mutuale alle problematiche legate ad un sistema diseguale, e non possano essere affrontate (nè tantomeno risolte) a prescindere da queste.
[articolo di Pietro Caresana e Sara Sostini, ecoinformazioni; foto di Pietro Caresana e Beatriz Travieso Pèrez]

Sintesi fotografica dei lavori a eQua Cremona curata da Beatriz Travieso Pérez (anche autrice di quasi tutte le foto) di ecoinformazioni per Arci Lombardia.

Sfoglia il numero di aprile del mensile ecoinformazioni interamente dedicato all’iniziativa.

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