Dopo l’approfondimento su lavoro, salute e differenze di genere in rapporto alla povertà, la seconda giornata di eQua 2023 ha avuto come cappello tematico le azioni possibili per invertire la tendenza della deupaperizzazione della popolazione. Un’istruzione realmente favorita, un reddito garantito per tutte e tutti e un’attivazione effettiva dei corpi intermedi sono stati i tre poli tattici esaminati nel pomeriggio di venerdì 14 aprile.

Combattere la povertà educativa, dentro e fuori la scuola
Così come il tema delle differenze di genere, anche il tema dell’educazione e della cura dell’infanzia è un tema emerso nel corso della seconda eQua. Il pomeriggio di venerdì si è aperto tematizzando però specificamente il tema della povertà educativa, un tema che si fa sempre più pressante al venire meno di alleanze tra scuola ed altre istituzioni di socializzazione che un tempo si davano scontate ma ora non lo sono più. Vanessa Niri, responsabile Arci per infanzia, adolescenza e politiche educative, ha dialogato su questi aspetti con Annamaria Palmieri, dirigente scolastica in Barriera di Milano a Torino ed autrice per IlMulino di Ribaltamenti, testo sul rapporto tra comunità educante e società.

La scuola è un’organizzazione a legami deboli e non si può affrontare con ricette predefinite che ignorino la dimensione locale, contestuale ed anche individuale della scuola. Il ruolo del docente è cambiato radicalmente nel tempo, con uno spostamento di ruolo dal docente demiurgo del futuro dell’alunno a tutore del welfare e dell’inclusione sociale di studenti e studentesse. La funzione di chi insegna non è più solo quella di insegnare e di selezionare chi ha un futuro d’élite, nello studio e nei ruoli sociali apicali, rispetto a chi invece sarà destinato ad altre mansioni.
Le politiche degli ultimi due/tre decenni, però, non portano in sé questa dinamica, bensì mirano a successo, individualizzazione e classismo tra le famiglie che trovano nella scuola un luogo di polarizzazione anziché di equalizzazione delle condizioni di vita e sapere. Don Milani sosteneva che la scuola non può perpetrare un sistema scolastico che divida ed aumenti il baratro tra privilegiati ed oppressi. La scuola pubblica resta un riferimento, nonostante le proprie difficoltà, e deve farlo non come fucina di esperti e tecnici, bensì come luogo di formazione di cittadini e cittadine consapevoli. In questo senso, il pubblico non deve essere relegato a brutta copia del privato.

Per riguadagnare un ruolo veramente formativo della scuola pubblica, secondo Palmieri, serve superare le dicotomie attraverso le quali la scuola è oggi narrata (dirigente-insegnanti, genitori-insegnanti, curriculum-extracurriculum e via dicendo…), costruendo un racconto che sia anche esperienza sociale. La risocializzazione del corpo studentesco serve a superare la retorica dello scarto, mettendo in circolo virtuoso la cura e la coltivazione di talenti e desideri che non hanno possibilità di essere espressi. Il Pnrr deve diventare uno strumento fondamentale in questo senso, non per attivazioni estemporanee ma longitudinali, di tempo lungo, pensato e progettualizzato in ottica di prevenzione del disagio. Evitare il verticismo dell’amministrazione pubblica, l’additività del personale e dei progetti e la dipendenza dalla presenza o meno di fondi sono tre chiavi fondamentali per garantire continuità ad un agire scolastico che realmente garantisca l’espressione umana di chi frequenta gli istituti e generi cittadinanza oltre che mera professionalità. In questo senso, il precariato del personale è un ostacolo cruciale.
Resta, come la chiusura totale delle scuole in Campania durante la pandemia ha insegnato alla relatrice stessa, l’importanza della fantasia educativa, tra la forza di superare le difficoltà tecnico economiche e la volontà politica di rendere la scuola uno spazio accessibile a tutti, formativo per le persone e conscio dell’importanza dei beni comuni, quelli del sapere su tutti.
La scuola non dev’essere affrontata dalla politica in senso paternalistico, approccio testimoniato da riforme costruite sull’ignoranza del funzionamento empirico e locale della scuola; d’altro canto, però, nemmeno l’approccio aziendalizzante e organizzato per test può funzionare, perché si va a peggiorare la qualità dei saperi e si svaluta il ruolo del docente, denigrato anche sul piano dei salari. L’insegnamento deve staccarsi dall’obiettivo della professionalizzazione e includere, gli insegnanti per primi, senza discriminare scuole di serie A e di serie B e dando a tutti e tutte un’opportunità di essere individui. Credere nell’inclusione significa anche praticarla, a partire dal modo in cui vengono pensate le persone.

Ci vuole un reddito. Senza se, senza ma
Dalla scuola al reddito con Sandro Busso, docente di sociologia politica e politiche sociali presso il dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino, e Ilaria Manti, economista e attivista della campagna Ci vuole un reddito.
Partendo dalla domanda «a cosa servono le politiche di sostegno al reddito?» si procede dunque ad esaminarne la risposta a livello sociale, economico e politico data dalle istituzioni e dai governi recenti: usato come “calmiere” per “tenere a bada” le classi più povere, il «welfare così come concepito oggi» risulta un mero supporto invece di essere soluzione efficace, contribuendo a lasciare chi necessita di un sostegno al reddito in una situazione di indigenza perenne, soggiogato ad un controllo distante e discriminatorio.
La retorica del merito, nelle parole di Busso, è spesso una trappola anche per l’attivismo e l’associazionismo, ed è pericolosa per chi, all’interno di queste realtà, lavora attivamente per colmare disparità: «i diritti non si garantiscono a chi se li merita, altrimenti non si chiamerebbero diritti»; il reddito per tutte e tutti dovrebbe essere concreto a prescindere proprio dal merito o dell’efficacia.
L’altro binomio da demolire è quello tra lavoro e realizzazione personale: lavorare non può e non deve, sottolinea ancora Busso, diventare l’unica caratteristica per definire una persona (e quindi il suo merito all’interno della società). La deriva preoccupante dell'”occupabilità”, così come promulgata dall’attuale governo, è vincolata a caratteristiche individuali, andando ad affossare i passi avanti fatti a livello politico e sociale riguardanti le persone con disabilità o immigrate e immigrati.

Ilaria Manti illustra brevemente cosa è stato il reddito di cittadinanza: uno strumento che negli anni ha permesso a più di un milione di persone di non entrare in povertà. Inoltre, in quanto “misura di sostegno al reddito”, permette a chi lo percepisce – e secondo i dati Istat, le percentuali pendono a favore di chi già lavora, in barba alla propaganda sugli “sfaticati” – di poter avere uno standard di vita per lo meno dignitoso.
Agli attacchi e alle distorsioni compiute negli ultimi mesi da certa politica di destra, Manti ribatte insistendo sul «rovesciare la contro-narrazione», rifiutando di attestarsi su posizioni difensive e certe definizioni colpevolizzanti per chi cerca lavoro e non lo trova, per chi non riesce ad affrontare le spese quotidiane.
Cercando di tratteggiare un possibile profilo di un “nuovo” sostegno al reddito, Busso sostiene che il primo cambiamento è quello di uscire da uno stato di condizionalità, facendo saltare patti e accordi che ancorano questa ad una definizione errata alla base dei criteri di beneficio: «i diritti non si contrattualizzano», ed è necessario riportare questo al centro del dibattito pubblico, senza avere paura di fare piccoli, grandi passi per uscire dagli schemi.

Uno di questi è proprio “Ci vuole un reddito”, la campagna in difesa del reddito di cittadinanza sostenuta da associazioni e esperienze territoriali diverse (dagli sportelli di Nonna Roma alla stessa Arci): un mondo eterogeneo e variegato che però cerca di dare una risposta unica, in una gioiosa antitesi costruttiva che riporta come nucleo pulsante della propria proposta il diritto ad una vita dignitosa e la possibilità di scegliere la propria strada e la propria autonomia. Incontrandosi, nelle parole di Manti, ci si confronta, però è anche necessario attivarsi nel proprio quotidiano (lavorativo, personale, sociale, associativo) nel creare spazi su cui costruire partendo dalle proprie esperienze e da una spinta, tutta dal basso, a controinformare, agire e cambiare.

L’insorgenza del mutualismo

Vito Scalisi ha portato sul palco di eQua una delle esperienze principali di opposizione al lavoro sfruttante, alla disoccupazione causata dalla caccia al profitto e alla povertà. Come il Collettivo di fabbrica – Gkn negli ultimi anni, anche il Circolo Arci Ri-Maflow nasce da un’esperienza di delocalizzazione e licenziamento di massa. Gli operai della fabbrica del milanese hanno deciso, sull’esempio delle fabbriche argentine occupate ad inizio 2000, di prendere in mano gli stabilimenti abbandonati con un’autogestione conflittuale condotta dal 2013 nel nome dell’autodeterminazione e della produzione alternativa. Ri-Maflow è diventata un luogo simbolico sia per la sua capacità di creare uno spazio di socialità sul territorio, sia per la problematicità della quantità dei luoghi di non-lavoro che i sindacati non riescono a coprire.
L’esperienza della ex Gkn è l’esempio di come si possa mettere in discussione il sistema con un movimento dal basso animato da una parola d’ordine, «insorgiamo!», che unisce la vertenza singola con temi globali quali l’istruzione, l’ecologia e la sanità. Secondo Quitadamo, il dialogo aperto dalle fabbriche autogestite dovrebbe essere colto da organismi nazionali come l’Arci non solo a posteriori della delocalizzazione, ma anche in prevenzione e in preparazione di una socialità e politicizzazione industriale interna ancora con gli stabilimenti in funzione.

Paolo Venturi, direttore di Aiccon, ha sottolineato con Scalisi che la dimensione non è solo normativa, ma anche politica data la natura conflittuale e sociale che assumono le fabbriche. Il punto non è la categorizzazione fiscale e giuridica, bensì costituirsi al di fuori su un piano identitario che può comprendere questa dimensione senza però esaurirsi in essa. Il mutualismo, legato all’insorgenza, concilia e coordina opposizione ed utopia, resistenza, slancio rivoluzionario e progettualità; il fine, in questo caso, è il senso del lavoro.
Pratica ottocentesca, il mutualismo si riscopre nella contemporaneità in nome dell’integrazione tra comunità e territorio e dell’aggregazione di persone diverse in luoghi diversi. Dunque, si è di fronte ad un principio terzo strutturato dal basso in movimento per qualcosa; la sfida si fonda sul desiderio, quindi. Ciò che pare mancare però è il mutuo riconoscimento, carenza dovuta ad un’individualizzazione tipicamente postmoderna che frena la spinta a soccorrersi l’un l’altro. Inoltre, serve chiarire la dimensione di mutuo beneficio, di comunanza degli obiettivi tra enti diversi. L’Arci sembra potersi proporre concretamente come collante, luogo di organizzazione e socializzazione, ma anche di produzione di un valore costituito per essere non estratto, ma condiviso.

La pratica mutualistica, soprattutto in un contesto occupato ed auto-organizzato, è faticosa, dunque il collegamento esterno è ancora più importante, sia per cercare legittimazione dalla cittadinanza che per trovare il proprio posto in un contesto di esperienze (nel caso della Ri-Maflow, Gkn, il movimento No Tav, l’ambientalismo sempre più diffuso per fare degli esempi) molto variegato. La scelta di costituirsi come circolo Arci va letta in questo senso, senza ambizione di farsi guida rivoluzionaria, ma in cerca di un sostegno sociale che al momento pare non esserci.
La testimonianza di Quitadamo, comunque, testimonia la necessità di fare una rete contro la povertà legata al lavoro (sia esso povero o mancante) ma al tempo stesso c’è il problema, discusso da Scalisi e Venturi, dell’accesso e dell’opportunità di sedersi a determinati tavoli di trattativa per le politiche sociali. Da una parte, un certo tipo di interazione istituzionale è precluso se manca una data denominazione sociale, cosa che tradisce la polivocità delle esperienze territoriali; d’altro canto, la questione sembra essere la conservazione di una progettualità legata al mutualismo che guardi ad una coprogettazione innovativa. Non ha senso partecipare a tavoli già determinati, serve una linea di costruzione collettiva e partecipata da tutti gli enti aderenti.
Ciò che sembra emergere dall’intervento è l’importanza di conservare una certa integrità, al netto di tutte le difficoltà pratiche e di legittimazione agli occhi della cittadinanza, delle esperienze mutualistiche e di autogestione. Dati i pochi baluardi costruiti completamente dal basso rispetto ad un meccanismo sociale depauperante e causante disoccupazione, serve dare forza a quelli che ci sono ed in effetti, l’idea di includere le varie realtà in una prospettiva collettiva. Walter Massa, intervenuto dal pubblico, ha di fatto chiosato rispetto alla giornata di lavori partendo dal tema del mutualismo per sottolineare l’importanza di costruire una proposta politica che realmente guardi ad inclusività e partecipazione capillare.
Un obiettivo che ancora una volta l’Arci si prefissa e perseguirà nel suo prossimo futuro di attività nazionale e territoriale. [articolo di Sara Sostini e Pietro Caresana, ecoinformazioni; foto di Pietro Caresana e Beatriz Travieso Pèrez]

Sintesi fotografica dei lavori a eQua Cremona curata da Beatriz Travieso Pérez (anche autrice di quasi tutte le foto) di ecoinformazioni per Arci Lombardia.

Sfoglia il numero di aprile del mensile ecoinformazioni interamente dedicato all’iniziativa.

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