Il problema non è l’immigrazione. È la nostra umanità perduta

 

barcaarciOggi è il 3 ottobre. Sono passati due anni dalla strage di Lampedusa: una strage annunciata.
Penso che ci sono stati in questi anni altri 3 ottobre.
Penso che altri 3 ottobre ci saranno.
Penso a tutte le vittime: ai morti, a chi non ha trovato accoglienza, a chi ancora cerca figli dispersi, a chi cerca verità, a chi cerca giustizia.


Penso alle donne, agli uomini, alle bambine e ai bambini che sarebbero potuti diventare miei concittadini, fermati alle frontiere da morte o da “ragion di Stato”.
Penso alle motivazioni che li portano a scalare montagne, ad attraversare deserti e mari.
Penso a Warsan Shire, la poeta nata in Kenya, da genitori somali in fuga dalla guerra civile, rifugiata a Londra che con alcuni versi della poesia “Casa”, ci ammonisce: «Dovete capire/ che nessuno mette i suoi figli su una barca/ a meno che l’acqua non sia più sicura della terra».
Penso che non basti preoccuparsi solo quando i grandi movimenti migratori arrivano alle nostre porte.
Penso che non si debba usare la parola emergenza per un fenomeno prevedibile e inarrestabile.
Penso alle cause che lo determinano: guerre, povertà, ingiustizie, violenze, assurde leggi nazionali e internazionali responsabili di stragi e i respingimenti alle frontiere dell’Europa.
Penso che non siamo riusciti a cambiare quelle leggi e che forse non abbiamo fatto abbastanza.
Penso all’ipocrisia di chi volta gli occhi per non guardare il muro invisibile costruito nel Mediterraneo, ma si indigna per il muro costruito in Ungheria, da un governo presieduto dallo xenofobo Victor Órban che ora ci imbarazza, ma non imbarazzava i parlamentari europei del PPE che gli sedevano accanto e lo avevano eletto vicepresidente del gruppo.
Penso che sono ritornate nell’oblio le responsabilità delle politiche migratorie nazionali ed europee.
Penso che la strage di Lampedusa,che sembrò scuotere le coscienze delle cittadine e dei cittadini italiani ed europei, è stata rapidamente dimenticata.
Penso che è stato rapidamente dimenticato anche il corpo di un bambino innocente morto sulle sponde del Mare nostrum, un mare nel quale dovremmo protenderci come un’arca di pace e non un arco di guerra, come diceva, inascoltato, Tonino Bello.
Penso all’indifferenza di tante e tanti che voltano lo sguardo per non vedere i pachistani che da settimane dormono alla stazione San Giovanni di Como.
Penso alle forze dell’ordine che fanno finta di non vederli per non essere costrette a intervenire.
Penso che il “cuore tenero”, una dote di cui a Como sono colmi anche i carabinieri, non possa bastare.
Penso che siano necessari gesti simbolici, da fare alla luce del sole, anzi sotto i riflettori, come quando, in un lontano primo maggio, passammo la frontiera con la Svizzera insieme agli immigrati, consapevoli che stavamo commettendo un reato, ma convinte e convinti che le politiche e le leggi sull’immigrazione fossero ingiuste e che bisognasse obiettare.
Penso che non possiamo accontentarci dell’emozionata ed emozionante risposta di tante donne e uomini che, anche a Como, hanno deciso di marciare scalzi l’11 settembre.
Penso che non basta commuoversi.
Penso che l’interesse per la sorte di migranti e rifugiati, per la loro dignità e umanità sia rapidamente diminuito.
Penso alla nostra umanità perduta.
Penso che ci sono momenti in cui è facile perdere la speranza e smettere di marciare scalzi, nativi e migranti, per il solo ostinato desiderio di rimanere umani, umane.
Penso che non dobbiamo e non possiamo perdere la speranza, non per bontà verso gli immigrati e le immigrate, ma per poter continuare a guardare negli occhi i bambini e le bambine che ci guardano. [Celeste Grossi, Arci Como]

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