L’altra Cernobbio/ Appunti di lavoro, ambiente, movimento
Circa 14 chilometri: questa è la distanza che nell’anno 2023 separa il Forum Ambrosetti, “tradizionalmente” sito a Villa d’Este, a Cernobbio, dall’altrettanto tradizionale “controforum” L’altra Cernobbio, pensato e costruito ancora una volta per la tredicesima edizione dalle persone che portano avanti la campagna Sbilanciamoci!, alla ricerca di alternative economiche a quel sistema, in mostra nella vetrina mondiale a Villa d’Este, sempre più oppressivo, ingiusto, tossico.
Pochi chilometri di lontananza, ma un universo infinito nelle intenzioni, insomma, e le parole di Danilo Lillia (Arci Terra e Libertà) e Giulio Marcon (Sbilanciamoci!) sottolineano come essa sia testimonianza di volontà di cambiamento, pur mantenendo la Costituzione come bussola.
Tra le file di poltrone rosse del circolo Arci Xanadù – il quale prontamente si è messo a disposizione dell’iniziativa dopo che il Comune di Cernobbio ha impedito l’utilizzo della sede originaria de L’altra Cernobbio per “questioni di ordine pubblico” – si raccolgono idee, proposte, spunti di riflessione e materiale di costruzione per alternative concrete ad una via unica, sempre più stretta nel passaggio e sofferta nel cammino; a sottolineatura di ciò, il minuto di silenzio per coloro ai quali le condizioni di lavoro sempre peggiori (per sicurezza, instabilità, precarietà) hanno tolto persino la vita – gli ultimi, sulla ferrovia in provincia di Torino poche ore prima.
Un’altra via è possibile, ma bisogna prima costruirla, poi renderla “strada maestra” (riprendendo il titolo dell’iniziativa) verso il futuro e infine volerci camminare sopra con determinazione: insieme a Sbilanciamoci!, hanno scelto di camminare Arci, Cgil e molte altre realtà politiche, sindacali, ambientaliste, di alternativa economica e tutela di diritti civili, sociali, politici.
Ecoinformazioni sceglie di raccontare questa “via alternativa” in maniera partecipata, affiancando Sbilanciamoci come media partner dell’iniziativa: il racconto e la sintesi di due giorni di parole e proposte attive è imprescindibile per scegliere il passo su cui camminare insieme sulla strada maestra che si va delineando. [Sara Sostini, ecoinformazioni]
Le politiche per la giusta transizione sociale e ambientale
Il fatto che l’apertura del tredicesimo convegno di Sbilanciamoci! sia dedicato all’ambiente e al lavoro non è un caso, dato che ecosistema e lavoro sono probabilmente i due soggetti più gravemente deteriorati dal sistema capitalista.
Proprio un esempio tremendo come la morte dei cinque operai di Torino mostra chiaramente come il sistema di sfruttamento sempre più consolidato a livello globale sia, e porti sempre più persone, giunto al limite del sostenibile.
La strada maestra contro un presente di crescente precarietà ed ingiustizia sociale è, secondo Marcon, quella dei tanti articoli costituzionali che tutelano le persone nelle sue differenze, il lavoro, la salute, l’istruzione, l’ambiente, l’equità socioeconomica ed i diritti.
Sbilanciamoci! si propone di promuovere non solo un progetto politico di difesa del benessere sociale e del settore pubblico, ma anche di farsi bacino critico del cambiamento. È in questo senso che deve essere letta l’idea dell’alleanza tra lavoro ed ambiente, argomento anche della prima sessione, con Enrico Giovannini, di Asvis, già ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil, Mariagrazia Midulla, responsabile clima di Wwf Italia, Pippo Onufrio, direttore generale di Greenpeace, e Michele De Palma, segretario generale della Fiom.
Come ha sottolineato Midulla, la transizione ecologica è una faccenda estremamente politica a cavallo tra rischi ed opportunità. Se ciò è vero, bisogna pensare ad un processo partecipato dal basso, governato in modo da garantirne l’equità e da tutelare tutte le fasce della popolazione, a partire da quella più in crisi: la classe media. Che ciò richieda un impegno attivo e che riguardi l’intera società e che non sia elitario, e questo delinea un primo senso dell’alleanza tra lavoro e clima da declinare, nelle parole di Minnini, come superamento del contrasto tra ambientalismo e sindacalismo. La divisione per competenze non funziona più e sempre più diffusamente in tutta Italia l’intreccio tra lavoro, ambiente e società si fa evidente a chi lavora in termini di catastrofi climatiche sui territori, impoverimento del lavoro e precarizzazione del lavoro.
«La transizione ecologica avverrà giocoforza» ha affermato Midulla, e ciò non è falso; ma l’Occidente è nettamente in ritardo. Giovannini, che ha ribadito la condanna politica alla precarizzazione del lavoro ed ai fatti di Torino, ha rilevato la necessità di superare due muri «di immaginario» che rallentano nel senso comune la reattività analitica rispetto alla problematicità del binomio ambiente-lavoro.
Certo, lavoratrici e lavoratori percepiscono la criticità, ma la narrazione neoliberista ha portato alla creazione di un muro che, in primis, impedisce di pensare in prospettiva futura, ma soprattutto rende inconciliabile l’idea che crescita economica e sostenibilità ambientale siano compatibili. L’idea alla base della giustizia sociale è invece proprio questa. Il punto non è allora “se”, ma “come, con che politiche” realizzare la transizione ecologica. Persino in una prospettiva di competitività, lontana in un certo senso dai valori di una certa sinistra, le imprese che compiono la transizione ne beneficiano.
Dunque, il ruolo di tramite tra società ed industria che il sindacato pare aver perso nel tempo può essere riconquistato attraverso un lavoro di contro-narrazione con cui togliere i freni conservatori e reazionari ad un’Europa che già si sta impegnando per prevenire i disastri che sempre più la crisi climatica sta presentando.
Dunque, un secondo significato del nesso clima-lavoro si presenta al dibattito: oltre all’abbattimento dei muri interni al terzo settore, anche sul piano di governo europeo e globale (e persino su quello economico), l’economia non può che giovare da un orientamento ambientalista.
Per i lavoratori, la percezione chiara della situazione ha portato al progressivo inserimento di criteri di valutazione dell’impatto ambientale all’interno delle fabbriche, riportano i sindacati. Anche livello d’impresa, in parallelo, è necessario prendere le redini della transizione ecologica senza deleghe e richieste di fondi dallo stato, ma impugnando la questione a livello di piano industriale. Non farlo ha comportato un enorme ritardo industriale, con conseguente perdita di competitività sul mercato e precarizzazione di lavoratori e lavoratrici.
De Palma, in questo senso, ha messo in campo la necessità di una battaglia sul tema della transizione, laddove non è la conversione di fabbrica a rallentare ed impoverire, ma l’accumulo di ritardo rispetto ad altri paesi sempre più forti grazie alla propria capacità prospettica anche in ottica verde. Di fronte all’immobilismo industriale e politico, è necessario per il sindacato ampliare il proprio bacino di rappresentanza non più agli iscritti, ma a tutte le persone che lavorano, per difendere le persone, ha aggiunto Onufrio, non solo dalla crisi climatica ma anche dalla precarizzazione sociale.
La prima sessione ha messo in luce insomma due punti fondamentali: la necessità di rendere la transizione ecologica tema di scontro politico e quella, legata alla prima, di rimettere al centro il sindacalismo e in generale la dimensione sociale come polo conflittuale rispetto al conservatorismo climaticamente critico di un’Europa (e soprattutto di un’Italia), nettamente in ritardo rispetto al presente.
Il fatto che si parli molto dei benefici delle imprese non deve far pensare che siano loro la priorità: è sul binomio ambiente-persone che bisogna porre l’accento, i benefici altri sono di secondo livello. In questo senso, ancora una volta, è necessario proporre una narrazione di transizione costruita dal basso che le istituzioni devono governare, non pilotare verso miopi e cataclismatici profitti.
Il territorio in questo dibattito assume un valore centrale, sia come luogo di interesse per quanto riguarda il benessere sociale delle persone che lo abitano, sia per ciò che riguarda la presenza sindacale che deve essere sì radicata, ma tramite un’azione guidata da un pensiero complesso e d’insieme. Conflitto e mutualismo sono i due strumenti per interpretare nella realtà politica questa prassi.
La mobilità di oggi e di domani
La seconda sessione ha sviluppato un tema centrale quando si parla di transizione e in gran parte sottintesa nel corso della prima. Incentrata sul tema della mobilità, ha visto intervenire Stefano Malorgio, segretario generale della Filt Cgil, Simone D’Alessandro, dell’Università di Pisa, Giorgio Airaudo, segretario della Cgil Piemonte, Carlo Tritto, policy officer di Transport & Environment e, in collegamento, Francesco Naso, segretario generale di Motus-E (in collegamento), coordinati da Rachele Gonnelli (Sbilanciamoci!).
La miopia organizzativa più volte citata nel corso del primo panel si paga, ora, con il fatto che organizzativamente la transizione completa costi e rallentamenti. Sviluppo significa processo che si dipana per far funzionare meglio qualcosa che, nel corso del cambiamento, deve continuare a funzionare. Sul piano della mobilità, il tema si fa particolarmente spinoso e complesso. Una trasformazione modale del sistema di trasporto è, ad oggi, impossibile per via dell’inadeguatezza del fondo trasporti a sostenere un incremento del trasporto pubblico.
Il ragionamento della transizione senza il tema della quantità delle persone da muovere e della velocità degli spostamenti è, secondo Malorgio, un discorso vuoto. In questo senso, il privilegio dell’auto sembra complessivamente impareggiabile (cosa non del tutto e non ovunque vera), ma senza dubbio il punto sollevato è forte se è vero che in diverse regioni, tra cui il Piemonte citato da Airaudo, non c’è alcuna progettualità rispetto al settore pubblico.
D’Alessandro, ricercatore sulla sostenibilità e autore di un documento sull’impatto economico della transizione del settore automobilistico, ha ribadito questo argomento sostanziandolo con il proprio lavoro. La mobilità automobilistica è una questione egemone, ma questa preponderanza si accosta alla messa in discussione del settore automobilistico, ormai in decennale crisi.
Di nuovo, il bilancio della transizione è negativo a causa dell’arretratezza del paese e di un prospetto occupazionale che appare negativo se visto in ottica futura di fabbrica dato lo spostamento sul settore informatico-cognitivo della produzione.
Di fronte al ritardo, non resta che accelerare e non tentennare di fronte all’ipotesi che alcuni obiettivi di riduzione e compensazione delle emissioni possano essere mancati. Transizione alla luce dell’alleanza clima-lavoro significa allora anche pensare, cioè fare ricerca su questi aspetti in termini di costi, mezzi e proiezioni. Di fronte alle necessità del presente, la riconversione delle competenze e la redistribuzione del lavoro sembrano linee-guida utili per una gestione della transizione non sconnessa dalle esigenze delle persone. Certamente, l’assenza di pianificazione in questo senso è determinante nel fallimento tanto della tutela climatica quanto dell’efficienza del trasporto pubblico.
Di fronte alla complessità del cambiamento climatico, con le sue implicazioni socioeconomiche, si deve guardare avanti, in prospettiva, mettendo in primo piano il pianeta e le persone ed uscendo dalle logiche di profitto che sembrano guidare la maggioranza degli organi istituzionali competenti.
Se sempre più realtà si occupano di questo tema dall’interno del settore produttivo (Transport&Environment e Motus-E sono casi evidenti in questo senso), monitorandolo e creando sinergie tra imprese che operano nel settore delle rinnovabili, ed il terzo settore si sta organizzando discutendo sempre più analiticamente della giustizia sociale come corollario di quella climatica, l’assenza di impegno politico e gestionale e la miopia da parte di chi ha potere decisionale è cruciale nell’accumulare ritardo rispetto a qualcosa che doveva essere già iniziato da anni.
Come ormai troppo spesso si dice, il tempo stringe; certamente le parti sociali possono e devono inasprire il conflitto, ma non paiono esserci alternative di effetto immediato se non un alleanza globale tra lavoro ed ambiente che, negli interessi delle persone e solo secondariamente dei proprietari, avvii quei processi che ad oggi paiono le più concrete misure per restituire abitabilità al pianeta Terra e a chi lo abita.
[Pietro Caresana, ecoinformazioni; foto di Beatriz Travieso Pérez, ecoinformazioni e Carlo Pozzoni per ecoinformazioni]