Contro l’orrore c’è solo la nonviolenza
Riprendiamo da Assopace Palestina l’importante analisi Una bussola per il nostro lutto di Judith Butler ancora più attuale dopo la mostruosa strage dell’ospedale di Gaza del 17 ottobre.
«Le questioni che hanno più bisogno di essere discusse pubblicamente, quelle che hanno più urgenza di essere discusse, sono quelle che sono difficili da discutere all’interno delle strutture ora a nostra disposizione. Anche se si vuole andare direttamente al sodo, ci si scontra con i limiti di un quadro che rende quasi impossibile dire ciò che si ha da dire. Voglio parlare della violenza, della violenza attuale, della storia della violenza e delle sue molteplici forme. Ma se si vuole documentare la violenza, il che significa comprendere i massicci lanci di razzi e le uccisioni in Israele da parte di Hamas come parte di quella storia, si può essere accusati di “relativizzare” o “contestualizzare”. Dobbiamo certamente condannare o approvare, e questo ha senso, ma è tutto quello che ci viene richiesto dal punto di vista etico? In effetti, condanno senza riserve la violenza commessa da Hamas. È stato un massacro terrificante e rivoltante. Questa è stata la mia reazione principale, e permane tuttora. Ma ci sono anche altre reazioni.
Quasi immediatamente, la gente vuole sapere da che “parte” si sta, e chiaramente l’unica risposta possibile a tali uccisioni è una condanna inequivocabile. Ma perché, a volte, il fatto di chiedersi se stiamo usando il linguaggio giusto o se abbiamo una buona comprensione della situazione storica pensiamo che sia un ostacolo a una forte condanna morale? È davvero un modo di render tutto relativo se ci chiediamo che cosa esattamente stiamo condannando, quale dovrebbe essere la portata di tale condanna e come descrivere al meglio la formazione politica, o le formazioni, a cui ci opponiamo? Sarebbe strano opporsi a qualcosa senza capirlo o senza descriverlo bene. Sarebbe particolarmente strano credere che la condanna richieda il rifiuto di capire, per paura che la conoscenza possa avere solo una funzione relativizzante e minare la nostra capacità di giudizio. E se fosse moralmente imperativo estendere la nostra condanna a crimini altrettanto spaventosi di quelli ripetutamente messi in evidenza dai media? Quando e dove inizia e finisce la nostra condanna? Non abbiamo forse bisogno di una valutazione critica e informata della situazione per accompagnare la condanna morale e politica, senza temere che la conoscenza ci trasformi, agli occhi degli altri, in falliti morali complici di crimini orrendi?
C’è chi usa la storia della violenza israeliana nella regione per scagionare Hamas, ma usa una forma corrotta di ragionamento morale per raggiungere questo obiettivo. Sia chiaro, la violenza israeliana contro i palestinesi è schiacciante: bombardamenti incessanti, uccisioni di persone di ogni età nelle loro case e nelle strade, torture nelle prigioni, tecniche di fame a Gaza ed esproprio delle case. E questa violenza, nelle sue molteplici forme, è perpetrata contro un popolo soggetto alle regole dell’apartheid, al dominio coloniale e alla condizione di restare apolide. Tuttavia, quando il Comitato di Solidarietà con la Palestina di Harvard rilascia una dichiarazione in cui sostiene che “il regime di apartheid è l’unico da biasimare” per gli attacchi mortali di Hamas contro obiettivi israeliani, commette un errore. È sbagliato attribuire la responsabilità in questo modo, e nulla dovrebbe esonerare Hamas dalla responsabilità per le orribili uccisioni che ha perpetrato. Allo stesso tempo, questo gruppo e i suoi membri non meritano di essere inseriti nella lista nera o minacciati. Hanno sicuramente ragione a sottolineare la storia della violenza nella regione: “Dalle confische sistematiche di terre agli attacchi aerei di routine, dalle detenzioni arbitrarie ai posti di blocco militari, dalle separazioni forzate delle famiglie alle uccisioni mirate, i palestinesi sono stati costretti a vivere in uno stato di morte, sia lenta che improvvisa”.
Questa è una descrizione accurata, e deve essere fatta, ma non significa che la violenza di Hamas sia solo violenza israeliana con un altro nome. È vero che dovremmo capire perché gruppi come Hamas si sono rafforzati alla luce delle promesse non mantenute di Oslo e dello “stato di morte, sia lenta che improvvisa” che descrive l’esistenza di molti palestinesi che vivono sotto l’occupazione, sia che si tratti della costante sorveglianza e della minaccia di detenzione amministrativa senza un giusto processo, sia che si tratti dell’intensificarsi dell’assedio che nega ai gazesi medicine, cibo e acqua. Tuttavia, non si ottiene una giustificazione morale o politica per le azioni di Hamas facendo riferimento alla sua storia. Se ci viene chiesto di intendere la violenza palestinese come una continuazione della violenza israeliana, come ci chiede il Comitato di Solidarietà con la Palestina di Harvard, allora c’è una sola fonte di colpevolezza morale, e nemmeno i palestinesi possono considerare le loro azioni violente come proprie. Non è questo il modo di riconoscere l’autonomia dell’azione palestinese. La necessità di separare la violenza pervasiva e implacabile dello Stato israeliano da qualsiasi giustificazione della violenza è cruciale se vogliamo considerare quali altri modi ci possono essere per liberarci dal dominio coloniale, fermare gli arresti arbitrari e le torture nelle carceri israeliane e porre fine all’assedio di Gaza, dove l’acqua e il cibo sono razionati dallo Stato-nazione che controlla i suoi confini. In altre parole, la domanda su quale mondo sia ancora possibile per tutti gli abitanti di quella regione dipende dalle soluzioni per porre fine al dominio coloniale. Hamas ha una risposta terrificante e spaventosa a questa domanda, ma ce ne sono molte altre. Se, tuttavia, ci è vietato fare riferimento all’”occupazione” (che fa parte del contemporaneo Denkverbot –vietato pensare– tedesco), se non possiamo nemmeno mettere in scena il dibattito se il dominio militare israeliano della regione sia apartheid razziale o colonialismo, allora non abbiamo alcuna speranza di comprendere il passato, il presente o il futuro. Molte persone che guardano la carneficina attraverso i media si sentono senza speranza. Ma uno dei motivi per cui sono senza speranza è proprio che stanno guardando attraverso i media, vivendo nel mondo sensazionale e transitorio dell’indignazione morale senza speranza. Una moralità politica diversa richiede tempo, un modo paziente e coraggioso di imparare e dare un nome alle cose, così da poter accompagnare la condanna morale con una visione morale.
Mi oppongo alla violenza inflitta da Hamas e non concedo alcun alibi. Quando lo dico, esprimo chiaramente una posizione morale e politica. Non equivoco quando rifletto su ciò che questa condanna presuppone e implica. Chiunque si unisca a me in questa condanna potrebbe chiedersi se la condanna morale debba basarsi su una qualche comprensione di ciò a cui ci si oppone. Si potrebbe dire: no, non ho bisogno di sapere nulla della Palestina o di Hamas per sapere che ciò che hanno fatto è sbagliato e per condannarlo. E se ci si ferma lì, affidandosi alle rappresentazioni mediatiche contemporanee, senza mai chiedersi se siano effettivamente giuste e utili, se permettano di raccontare la storia, allora si accetta una certa ignoranza e ci si affida al quadro presentato. Dopotutto, siamo tutti indaffarati e non possiamo essere tutti storici o sociologi. È un modo possibile di pensare e di vivere, e anche persone con buone intenzioni vivono in questo modo. Ma a quale costo?
E se la nostra moralità e la nostra politica non si fermassero all’atto di condanna? Se insistessimo nel chiederci quale forma di vita libererebbe la regione da una violenza come questa? E se, oltre a condannare i crimini più efferati, volessimo creare un futuro in cui la violenza di questo tipo abbia fine? È un’aspirazione normativa che va oltre la condanna momentanea. Per realizzarla, dobbiamo conoscere la storia della situazione, la crescita di Hamas come gruppo militante nella devastazione del momento post-Oslo per coloro che a Gaza non hanno mai ottenuto il promesso autogoverno; la formazione di altri gruppi di palestinesi con altre tattiche e obiettivi; la storia del popolo palestinese e le sue aspirazioni alla libertà e al diritto all’autodeterminazione politica, alla liberazione dal dominio coloniale e dalla violenza militare e carceraria dilagante. Allora potremmo far parte della lotta per una Palestina libera, in cui Hamas verrebbe sciolto o sostituito da gruppi con aspirazioni non violente alla convivenza.
Per coloro la cui posizione morale si limita alla sola condanna, la comprensione della situazione non è un obiettivo. Un’indignazione morale di questo tipo è probabilmente anti-intellettuale e limitata al presente. Tuttavia, l’indignazione potrebbe anche spingere una persona a consultare i libri di storia per scoprire come eventi di questo tipo siano potuti accadere e se le condizioni possano cambiare in modo che un futuro di violenza non sia più possibile. Non si deve pensare che la “contestualizzazione” sia un’attività moralmente problematica, anche se ci sono forme di contestualizzazione che possono essere usate per spostare la colpa o per scagionare. Possiamo distinguere tra queste due forme di contestualizzazione? Il fatto che alcuni pensino che contestualizzare una violenza orrenda distolga o, peggio, razionalizzi la violenza, non significa che dovremmo arrenderci all’affermazione che tutte le forme di contestualizzazione siano moralmente relativistiche in questo senso. Quando il Comitato di Solidarietà con la Palestina di Harvard sostiene che “il regime di apartheid è l’unico da biasimare” per gli attacchi di Hamas, sottoscrive una versione inaccettabile di responsabilità morale. Sembra che per capire come si è arrivati a un evento, o che significato ha, dobbiamo imparare un po’ di storia. Ciò significa che dobbiamo allargare l’obiettivo al di là dello spaventoso momento presente, senza negarne l’orrore, ma rifiutando allo stesso tempo di lasciare che quell’orrore rappresenti tutto l’orrore che c’è da rappresentare, da conoscere e da contrastare. I media contemporanei, per la maggior parte, non raccontano gli orrori che il popolo palestinese ha vissuto per decenni sotto forma di bombardamenti, attacchi arbitrari, arresti e uccisioni. Se gli orrori degli ultimi giorni assumono per i media un’importanza morale maggiore rispetto agli orrori degli ultimi settant’anni, allora la risposta morale del momento rischia di eclissare la comprensione delle ingiustizie radicali subite dalla Palestina occupata e dai palestinesi sfollati con la forza – così come il disastro umanitario e la perdita di vite umane che si stanno verificando in questo momento a Gaza.
Alcuni temono, a ragione, che qualsiasi contestualizzazione degli atti violenti commessi da Hamas venga usata per scagionare Hamas, o che la contestualizzazione distolga l’attenzione dall’orrore di ciò che hanno fatto. Ma se fosse l’orrore stesso a portarci a contestualizzare? Dove inizia e dove finisce questo orrore? Quando la stampa parla di “guerra” tra Hamas e Israele, offre un suo quadro di riferimento per comprendere la situazione. È come se avesse capito già in anticipo come stanno le cose. Se invece Gaza viene intesa come una città occupata, o se ci si riferisce ad essa come ad una “prigione a cielo aperto”, si dà un’interpretazione diversa. Sembra una semplice descrizione, ma il linguaggio limita o facilita ciò che possiamo dire, come possiamo descrivere e cosa possiamo conoscere. Sì, il linguaggio può descrivere, ma acquista il potere di farlo solo se si conforma ai limiti imposti a ciò che è dicibile. Se si decide che non abbiamo bisogno di sapere quanti bambini e adolescenti palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania e a Gaza quest’anno o nel corso degli anni di occupazione, che questa informazione non è importante per conoscere o valutare gli attacchi a Israele e le uccisioni di israeliani, allora abbiamo deciso che non vogliamo conoscere la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dai palestinesi. Vogliamo conoscere solo la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dagli israeliani. Un’amica israeliana, autodefinitasi “antisionista”, scrive online di essere terrorizzata per la sua famiglia e i suoi amici, di aver perso delle persone. E i nostri cuori dovrebbero andare a lei, come sicuramente fa il mio. È inequivocabilmente terribile. Eppure, non c’è un momento in cui la sua esperienza di orrore e di perdita dei suoi amici e della sua famiglia sia immaginata come ciò che un palestinese potrebbe provare dall’altra parte, o che ha provato dopo anni di bombardamenti, incarcerazioni e violenze militari? Anch’io sono un’ebrea che vive un trauma transgenerazionale in seguito alle atrocità commesse contro persone come me. Ma sono state commesse anche contro persone non come me. Non devo identificarmi con questo volto o con questo nome per dare un nome alle atrocità che vedo. O, almeno, mi sforzo di non farlo.
Alla fine, però, il problema non è semplicemente una mancanza di empatia. L’empatia, infatti, si forma principalmente all’interno di una cornice che permette di realizzare un’identificazione, o una trasposizione tra l’esperienza di un altro e la mia. E se la cornice dominante considera alcune vite più dolorose di altre, allora ne consegue che una serie di perdite è più orribile di un’altra serie di perdite. La questione di quali vite valga la pena di piangere è parte integrante della questione di quali vite valga la pena di valorizzare. E qui il razzismo entra in modo decisivo. Se i palestinesi sono “animali”, come insiste il Ministro della Difesa israeliano, e se gli israeliani ora rappresentano “il popolo ebraico”, come insiste Biden (comprimendo in Israele tutta la diaspora ebraica, come chiedono i reazionari), allora le uniche persone che possono essere rimpiante, le uniche che possono essere oggetto di dolore, sono gli israeliani, perché la scena della “guerra” si combatte ora tra il popolo ebraico e gli animali che cercano di ucciderlo. Non è certo la prima volta che un gruppo di persone che cerca di liberarsi dalle catene coloniali viene rappresentato come un animale dal colonizzatore. Gli israeliani sono “animali” quando uccidono? Questo inquadramento razzista della violenza contemporanea ricapitola la contrapposizione coloniale tra i “civilizzati” e gli “animali” che devono essere eliminati o distrutti per preservare la “civiltà”. Se adottiamo questo quadro nel dichiarare la nostra opposizione morale, ci troviamo implicati in una forma di razzismo che si estende alla struttura della vita quotidiana in Palestina. E per questo è sicuramente necessaria una modifica radicale.
Se pensiamo che la condanna morale debba essere un atto chiaro e puntuale, senza alcun riferimento al contesto o alla conoscenza, allora accettiamo inevitabilmente i termini in cui tale condanna viene formulata, il palcoscenico su cui vengono orchestrate le alternative. In questo contesto più recente, accettare questi termini significa ricapitolare forme di razzismo coloniale che fanno parte del problema strutturale da risolvere, della perdurante ingiustizia da superare. Non possiamo quindi permetterci di distogliere lo sguardo dalla storia dell’ingiustizia in nome della certezza morale, perché ciò significa rischiare di commettere ulteriori ingiustizie e, a un certo punto, la nostra certezza vacillerà su un terreno non proprio solido. Perché non possiamo condannare atti moralmente odiosi senza perdere la nostra capacità di pensare, conoscere e giudicare? Sicuramente possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose.
Gli atti di violenza a cui assistiamo nei media sono orribili. E in questo momento di massima attenzione mediatica, la violenza che vediamo è l’unica violenza che conosciamo. Ripeto: abbiamo ragione a deplorare questa violenza e a esprimere il nostro orrore. Sono giorni che ho il voltastomaco. Tutti quelli che conosco vivono nella paura di ciò che la macchina militare israeliana farà dopo, se la retorica genocida di Netanyahu si concretizzerà nell’uccisione in massa dei palestinesi. Mi chiedo se possiamo piangere, senza riserve, le vite perse a Tel Aviv e quelle perse a Gaza senza impantanarci in dibattiti sul relativismo e l’equivalenza. Forse l’ambito più ampio del lutto è al servizio di un ideale più sostanziale di uguaglianza, che riconosce l’uguaglianza di dolore delle vite, e fa nascere l’indignazione per il fatto che queste vite non avrebbero dovuto essere perse, che i morti meritavano più vita e un uguale rispetto per le loro vite. Come possiamo immaginare una futura uguaglianza dei vivi senza sapere, come ha documentato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, che le forze israeliane e i coloni hanno ucciso quasi 3800 civili palestinesi dal 2008 in Cisgiordania e a Gaza, ben prima dell’inizio degli attacchi attuali. Dov’è il lutto del mondo per loro? Centinaia di bambini palestinesi sono morti da quando Israele ha iniziato le sue azioni militari di “vendetta” contro Hamas, e molti altri moriranno nei giorni e nelle settimane a venire.
Non minacciamo le nostre posizioni morali se dedichiamo un po’ di tempo a conoscere la storia della violenza coloniale e a esaminare il linguaggio, le narrazioni e le strutture che oggi operano per riferire e spiegare – e interpretare in anticipo – ciò che sta accadendo in questa regione. Questo tipo di conoscenza è fondamentale, ma non per razionalizzare la violenza esistente o autorizzarne di nuova. Il suo obiettivo è quello di fornire una comprensione della situazione più veritiera di quella che può essere fornita solo da un inquadramento incontrastato del presente. In effetti, ci possono essere altri modi di opposizione morale da aggiungere a quelli che abbiamo già accettato, compresa l’opposizione alla violenza di militari e polizia che riempie la vita dei palestinesi nella regione, togliendo loro il diritto di piangere, di conoscere ed esprimere la propria indignazione e solidarietà, e di trovare la propria strada verso un futuro di libertà.
Personalmente, difendo una politica della non violenza, pur sapendo che non può funzionare come principio assoluto da applicare in ogni occasione. Sostengo che le lotte di liberazione che praticano la non violenza contribuiscono a creare il mondo non violento in cui tutti vogliamo vivere. Deploro inequivocabilmente la violenza e allo stesso tempo, come molti altri, voglio partecipare a immaginare e a lottare per una vera uguaglianza e giustizia nella regione, quella che costringerebbe gruppi come Hamas a scomparire, a porre fine all’occupazione e a far fiorire nuove forme di libertà e giustizia politica. Senza uguaglianza e giustizia, senza la fine della violenza di stato condotta da uno stato, Israele, la cui fondazione è basata a sua volta sulla violenza, non si può immaginare un futuro, un futuro di vera pace – non, cioè, “pace” come eufemismo per normalizzazione, che significa mantenere le strutture di disuguaglianza, assenza di diritti e razzismo. Ma un futuro del genere non può realizzarsi senza essere liberi di nominare, descrivere e opporsi a tutta la violenza, compresa quella dello stato israeliano in tutte le sue forme, e di farlo senza temere la censura, la criminalizzazione o di essere accusati maliziosamente di antisemitismo. Il mondo che vorrei è un mondo che si opponga alla normalizzazione del dominio coloniale e sostenga l’autodeterminazione e la libertà dei palestinesi, un mondo che, di fatto, realizzi i desideri più profondi di tutti gli abitanti di quella terra di vivere insieme in libertà, non violenza, uguaglianza e giustizia. Questa speranza a molti sembra senza dubbio ingenua, persino impossibile. Tuttavia, alcuni di noi preferiscono aggrapparsi fortemente ad essa, rifiutando di credere che le strutture che esistono ora esisteranno per sempre. Per questo abbiamo bisogno dei nostri poeti e dei nostri sognatori, dei folli indomiti, di quelli che sanno organizzarsi».
Judith Butler insegna a Berkeley. The Force of Nonviolence è stato pubblicato nel 2020. In italiano: La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, a cura di Federico Zappino, Nottetempo, 2020.
Traduzione a cura di AssopacePalestina