eQua 2024/ Che genere di mondo?
eQua, terza edizione: cambia la cornice (quest’anno è il complesso Base di Milano a ospitare l’iniziativa, oramai un appuntamento fisso per Arci), ma non la sostanza. Tre giorni di incontri e dibattiti per fare il punto su disuguaglianze e sui lavori, come associazione e come persone impegnate ogni giorno per costruire un mondo diverso, smantellando un sistema sempre più opprimente, vorace, disumano.
Lo chiede la situazione politica mondiale a più latitudini (in cui il capitalismo guerrafondaio schiaccia innumerevoli popolazioni in spregio a situazioni di emergenza umanitaria, ambientale e sociale), compresa quella nazionale, sempre più – è il caso di dirlo – a tinte nere.
Ritrovarsi per esaminare un sistema di problemi – diversi, ma collegati tra loro in maniera indissolubile – non è impresa semplice, ma eQua del 2024, soprattutto grazie al lavoro coordinato della commissione nazionale Diseguaglianze, diritti sociali e libertà e del gruppo Politiche di genere, sceglie di guardare al quadro generale proprio secondo le prospettive di genere, fil rouge trasversale che attraversa ciascun panel e il lavoro dei futuri workshop; un punto di vista forse non così immediato, ma capace come pochi altri di rinnovare e rendere vive le energie per «mettere al mondo un mondo migliore».
Milano non è una sede casuale; ormai città-modello per l’avanguardia economica ed estetica d’Italia, il capoluogo meneghino è anche una lente d’ingrandimento su disuguaglianze, contraddizioni e dinamiche violente sempre più evidenti nel tessuto sociale globale. La terza edizione di eQua si inaugura, come ha rilevato nell’introduzione Maso Notarianni, in una fase storica in cui la direzione dell’agire del terzo settore pare essere linearmente semplice: prendere a chi ha troppa ricchezza per redistribuire e ricucire le spaccature socioeconomiche di cui sopra.
La scelta della città ospitante permette allora, come hanno sottolineato i e le portavoce di Fondazione Feltrinelli e delle istituzioni locali, una costante dialettica tra locale e territoriale: mettere in discussione la «città più europea d’Italia» significa allora analizzare gli effetti sociali della narrazione di apertura e progressismo della città, mostrando come essa sia lo specchio della retorica di sviluppo di un Occidente in realtà sempre più diseguale al proprio interno e violentemente predatorio rispetto al resto del mondo.
La cultura e, quest’anno più che mai, le differenze di genere, sono i due punti di leva che l’Arci ha scelto per rinnovare l’analisi critica di un sistema che (anche nell’inconscio di buona parte delle parti sociali), sembra essere ormai ineluttabile. Sguardi differenti sfidano il capitalismo, come recita il sottotitolo della due giorni dell’Arci, diventa allora una proposta prospettica che si rivolge ai lati oscuri della globalizzazione (il capitalismo di guerra, lo sfruttamento, le diseguaglianze) e li ingaggia punto per punto, tra differenze di genere e crisi climatica, sociale ed economica, cercando di trasformarli distanziandosi dalla logica neoliberista del “tutto e subito” ed accettando la logica della processualità e dei tempi medio-lunghi del cambiamento.
Merito, individualismo, scollamento sociale sono sintomi tipici del neoliberismo più ancora che del capitalismo “in senso storico” e soprattutto la componente giovanile della società ne è intrisa. Questo porta a un doppio mandato sociale per l’associazionismo, Arci compresa: agire in senso trasformativo e trasformare attraverso la formazione e l’aggregazione delle nuove generazioni perché possano abitare il presente ed il futuro in un orizzonte di equità maggiore.
Secondo Valeria Negrini di Fondazione Cariplo la forza sociale del terzo settore e la sfida lanciata dagli sguardi diversi risiedono e si muovono dall’incontro con l’altro che la pensa diversamente più che nell’autoconferma di chi la pensa nello stesso modo. Per intraprendere questa strada serve però anche una profonda autoconsapevolezza: sapere cosa il terzo settore ha realizzato nella sua storia ed essere consci della fase in cui si vive a livello di benessere e differenze sono due strumenti autoriflessivi con cui agire nel mondo, forti magari anche di una lettura critica dei dati che, soprattutto nella società dei social, risultano ormai accessibili a chiunque, in qualunque momento.
La campagna La grande ricchezza, presentata da Misha Maslennikov e lanciata da Oxfam Italia e Radio Popolare all’interno della più grande campagna europea Tax the rich va proprio in questa direzione. Il progetto è quello di utilizzare la banca dati sui redditi globali per incentivare una serie di proposte di legge dal basso per tassare le persone più ricche, lo 0,1% in Italia, ed usare gli introiti delle imposte in ottica welfaristica.
Un progetto che toccherebbe dunque una parte minima della popolazione, senza danneggiarla di fatto, ma che è osteggiato da una classe politica incapace di fare gli interessi della cittadinanza e che, in Europa ma soprattutto in Italia, si fa complice attiva dell’ampliarsi della forbice sociale.
Proprio il tema delle imposte, allora mostra come sfidare il capitalismo significhi troppo spesso intraprendere una continua rincorsa che lascia poco spazio alla progettualità contro un avversario che, anche attraverso le nuove tecnologie, risulta sempre più rapido e sfuggente (oltre a godere spesso e volentieri della collusione istituzionale).
A complicare il quadro, il fatto che internet è diventato un veicolo di elusione fiscale che permette alle grandi aziende di evitare l’evasione fiscale riuscendo contemporaneamente a depositare pochissimo denaro da destinare alle persone. Di fronte al capitalismo delle piattaforme, secondo Andrea Di Stefano, professore esperto del settore, anziché intraprendere questo inseguimento poco realizzabile occorre rallentare: da una parte, tracciare e tassare le transazioni anziché i capitali in modo da chiarire le dinamiche (raramente cristalline) di circolazione dei capitali delle superpotenze dell’e-commerce; dall’altra, scegliere di rinunciare alla tendenza di consumo accelerato del presente, rifiutando il fast fashion e il consumismo sfrenato anche a partire dalle proprie pratiche quotidiane.
In generale, è la dinamica del flusso a dover essere messa in discussione: se l’Italia diventa hub dei vettori di queste mega-aziende, e se Milano è lo specchio del Paese, allora diventa impensabile far emergere la cultura ed il benessere perché, di fatto, si delega il tessuto territoriale a veicolo di queste correnti che arricchiscono pochi ed impoveriscono tutti e tutte.
Per rallentare la circolazione di flussi economici astratti e lontani dal welfare, bisogna però mettere in crisi la narrazione per cui lo sviluppo è benefico incondizionatamente. Questo, che è un deposito del senso comune ormai decennale, si è però rivelato essere sostanzialmente falso. L’altrettanto di lungo corso disinvestimento nel welfare ha comportato, in Italia, un forte depauperamento socioculturale che, sempre nel tentativo di rincorrere una dinamica neoliberista evidentemente troppo veloce, ha portato ad un senso di impotenza che ha avuto, nelle parole di Patrizia Luongo, due gravi conseguenze a livello pubblico: l’imposizione della logica del contenimento anziché del contrasto alla radice delle situazioni critiche sociali e, a livello di senso comune, dell’idea che esista una proporzione tra ricchezza e merito e, per contro, povertà e demerito.
La questione diventa allora, per le associazioni, ricalibrare gli intervento in un’ottica di riapertura anziché di chiusura nello svantaggio e nella sofferenza del singolo individuo, prendendosi in carico la comunità oltre che coloro che necessitano dei servizi. Per farlo, non ci si può accontentare di essere enti prestatori, ma serve porsi come attori coinvolti nella progettazione territoriale, dialogando e co-costruendo con le istituzioni anziché guardarle come mere mandanti.
D’altronde, il territorio lo richiede, dato che la povertà è in crescita esponenziale. Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà, ha fatto notare che la reazione a questo incremento è di natura politico, ed è sul piano politico che bisogna affrontare la questione. Il disinvestimento nelle misure assistenziali come il reddito di cittadinanza e la frammentazione e privatizzazione dei servizi (sanità pubblica in primis) sono processi frutto di scelte precise, non casualità legate a concetti astratti come sviluppo e meritocrazia. Lasciare a se stessi i territori – il regionalismo differenziato è il manifesto di questo abbandono – significa sposare la logica neoliberista dell’individualismo che, riletta attraverso le diseguaglianze, significa abbandonare la cittadinanza in nome della convinzione che chi merita può salvarsi, le e gli altri no. Che il prezzo di questa visione sia alto e non sia equamente distribuito, è però un fatto comprovato nella realtà quotidiana.
Non solo, dunque, la crescita inarrestabile non interessa tutti e tutte, ma anzi penalizza maggiormente alcune specifiche categorie di persone: le soggettività non maschili, come eQua 2024 evidenzia, ma anche le soggettività razializzate ed i minori.
Linnea Nelli, ricercatrice di Fondazione Feltrinelli ha impugnato la complessa analisi introduttiva per entrare nel vivo dell’ottica di eQua 2024 proprio attraverso la lente delle «disuguaglianze nelle disuguaglienze», unendo la tematica di genere e quella ecologica nella prospettiva della giustizia sociale durante e a seguito della transizione ecologica.
Oltre che un obiettivo necessario, questo processo porterà a ripensare l’occupabilità: in proiezione, la progressiva tecnicizzazione ed ingegnerizzazione del lavoro pare lasciare poco spazio al lavoro delle donne dato il retaggio patriarcale che, da qui alla conversione del lavoro, continuerà ad incidere e già nel presente incide, anche dopo il Covid-19, se è vero che più del 95% dei posti di lavoro persi sono occupati da donne, che inoltre restano segregate a livello occupazionale e relegate, su tutto, nel settore della cura.
Il gender gap, insomma, sembra essere destinato a farsi sentire esponenzialmente anche in questa fase di necessità di ripensamento del lavoro: per contrastarlo, è urgente rivalutare le relazioni socioeconomiche rivalutando e remunerando il fattore di cura e de-marginalizzando le donne da un sistema-lavoro ancora troppo intriso di patriarcato.
Un pomeriggio di sguardo generale più che di genere – di letture sul femminile ce ne sono state forse troppo poche – si potrebbe dire, che lascia molti spazi aperti al dibattito dei panel della seconda giornata. Walter Massa, presidente nazionale Arci, ha tirato le fila di questo primo momento di riflessione sotto il segno della speranza e dell’immaginazione. Un lavoro difficile, continuo, frequentemente accidentato e sicuramente faticoso anche dato il contesto in cui l’associazionismo, i movimenti ed il terzo settore tutto operano giorno dopo giorno.
Guerra, crisi di varia natura e neoliberismo imperante sono realtà che inducono scoramento, ma oltre ad un presente di guerra (e sadismo, se si pensa a quanto accade alla popolazione palestinese sulla striscia di Gaza, dice Massa), cataclismi ecologici e sfruttamento lavorativo c’è l’operare quotidiano necessario delle organizzazioni sociali, la cui azione non può esimersi dall’essere politica per tentare di invertire questa tendenza.
Cambiamento e lotta per la democrazia devono essere i due fari che guidano organizzazioni come l’Arci nel suo agire – anche conflittuale, sempre di cura rivoluzionaria – territoriale con prospettiva globale, tanto “contro” il presente quanto “per” quelle persone, territori e comunità che, al di là di tutto, non possono essere abbandonate a se stesse.
Di questo messaggio è portatrice anche la mostra Con altri occhi. Un glossario visivo della cultura palestinese, voluta e allestita dalla commissione Cultura e giovani con Librimmaginari: un racconto visivo bellissimo attraverso diciotto illustrazioni di artisti provenienti da diversi paesi del Mediterraneo, capaci di raccontare alcuni simboli fondamentali della cultura e della storia palestinese con uno sguardo diverso da quello della (pur necessaria) cronaca, ma sicuramente altrettanto efficace. [Sara Sostini e Pietro Caresana; foto di Dario Onofrio; video di Gianpaolo Rosso]