Donne e pianeta/ Il diritto a vivere in Pace

Nella Giornata internazionale della Dichiarazione universale dei diritti umani voglio illuminare il diritto brutalmente negato: non subire gli orrori delle guerre.

E voglio continuare a riflettere sul protagonismo delle donne per fermare le guerre, salvare la Terra e affermare che «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere» [Christa Wolf]. Virginia Woolf, nel 1938 scriveva: «Il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi. E il fine è il medesimo: affermare il diritto di tutti, di tutti gli uomini e di tutte le donne, a vedere rispettati nella propria persona i grandi principi della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà». Ma spesso le appassionate parole di Pace, di impegno e di lotta delle donne contro la guerra sono oscurate dalla memoria collettiva e quasi inesistenti nei libri di storia.

Mentre scrivo la guerra è qui, prepotentemente, e continua a fare la storia, con il rischio sempre più concreto che la “guerra a pezzi” diventi globale e nucleare. Sono tempi difficili per la Pace, per la Terra, per i diritti delle persone, non solo delle donne, ma delle donne maggiormente. Tempi in cui vengono agite politiche di sfruttamento dell’ambiente e di oppressione degli esseri umani che aggravano la crisi climatica, determinano insicurezza e crescenti disuguaglianze, ipotecano il futuro. Politiche disumane.

Dopo l’invasione russa e la reazione Ucraina, armata dalla Nato, la guerra devasta il paese. Dall’inizio del conflitto nel febbraio 2022, i civili, e tra questi donne e bambini, continuano a pagare un prezzo altissimo, con oltre 10.000 morti e decine di migliaia di feriti. «La guerra ha sconvolto la vita di milioni di ucraini, compresi i bambini, che dovranno convivere con l’orribile eredità di perdite umane, distruzione fisica e danni ambientali, in particolare la contaminazione da parte dei residuati bellici esplosivi, per molti anni a venire» ha dichiarato, a ottobre 2023, Danielle Bell, la responsabile della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite. I rapporti della Commissione indipendente dell’Onu hanno documentato casi di violenza sessuale e di stupri che coinvolto donne, uomini e banbin3, di età compresa tra i 4 e gli 82 anni.

Nel 2008 l’Onu con la risoluzione 1820 ha sancito che lo stupro non è solo un’arma di guerra, ma è anche un crimine contro l’umanità. Sette anni dopo, il 19 giugno 2015, con la risoluzione 69/293, l’Onu ha istituito la Giornata internazionale contro le violenze sessuali nei conflitti armati. Ma lo stupro di guerra viene ancora perpetuato.

Bambine, donne di ogni età sono state barbaramente ammazzate il 7 ottobre da Hamas e altre sono state rapite per essere usate come merce di scambio. A Gaza sotto le bombe dell’esercito israeliano, che ha già ucciso oltre 16 mila persone, sono 50.000 le donne incinte. Partoriscono nei rifugi, in strada in mezzo alle macerie, o in strutture sanitarie devastate, prive di materiale sanitario e farmaci perché gli ospedali in dispregio di ogni umanità e diritto internazionale sono bombardati, assediati, occupati, chiusi o irraggiungibili; 45 centri di assistenza sanitaria sono stati bombardati e sono inattivi. Il 15% delle donne incinte rischia complicazioni legate al parto e di avere bisogno di cure mediche che non saranno assicurate, mentre muoiono i bambini prematuri in terapia intensiva senza energia per le incubatrici.

Davanti a tanti morti, in prevalenza donne e bambini, davanti a tanto dolore, le femministe lottano perché si fermi il massacro, si depongano le armi, si abbia cura delle persone. Prevalga l’umanità. Continuano a pretendere che il corpo delle donne sia il primo territorio di pace e di libertà, non sia mai più usato come “campo di battaglia” o “bottino di guerra”. A pretendere che stupro e violenza sessuale non siano mai più armi per l’affermazione del potere maschile sui nostri corpi e sulle nostre menti.

Sono passati più di venti anni dalla più grande manifestazione mai realizzata al mondo, quella del 15 febbraio 2003 contro la guerra in Iraq (110 milioni di persone in piazza in tutto il pianeta, che il New York Times definì “la seconda superpotenza mondiale”). Noi femministe portavamo cartelli con la scritta “Fuori la guerra dalla storia”, motto coniato anni prima da Lidia Menapace. Per noi non era uno slogan da urlare nei cortei, era ed è un’assunzione di impegno e di responsabilità. Invece, «la guerra è entrata nel quotidiano, eppure bisogna continuare a pensare, a pensare alla pace, e da donne.», come ci ha insegnato Virginia Woolf, durante la prima Guerra mondiale.

Sperare la Pace

Certo in questi tempi di orrore non è facile continuare ad ascoltare la voce di Virginia Woolf. Ma sono motivo di speranza la lotta delle attiviste di Women Wage Peace (organizzazione fondata all’indomani dei 50 giorni di guerra di Gaza/ Operazione Protective Edge del 2014, cresciuta fino a diventare il più grande movimento per la pace in Israele) e delle attiviste di Women of the Sun, il movimento per la pace delle donne palestinesi fondato nel 2021. Wwp e Wos, pochi giorni prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre avevano insieme marciato per la Pace. E la lotta dell’Ukrainian Pacifist Movement, di Go by the forest in Russia, di Our House in Bielorussia, che tenacemente continuano un progetto comune di Pace e insieme a chiedere all’Unione Europea che siano aperte le frontiere per garantire protezione e asilo a obiettori e disertori. E raccontare delle donne che il 4 novembre hanno raggiunto da Brescia la base militare di Ghedi, marciando per ore in fila per due, in silenzio, vestite di nero, con una sciarpa bianca e le Donne per la pace, nate nella primavera del 2022 dopo l’inizio della guerra in Ucraina e ora attive sull’orrore a Gaza, e delle Donne in nero che manifestano in silenzio, in Italia e nel mondo, il ripudio della guerra.

E allora noi femministe siamo sconfitte? No, non direi. La storia ci ha dato ragione sull’Iraq, sull’Afghanistan, … e ci darà ragione ancora una volta, ora che continuiamo a dire che non siamo equidistanti in questa guerra in Europa, ma siamo equivicine al popolo ucraino e a quello russo.

Continuiamo a tessere, con i fili tenaci, tele che legano nel tempo le lotte dei movimenti delle donne, perché «le donne sono da sempre la parte oppressa e sfruttata eppure allo stesso tempo da sempre sono quelle che garantiscono la ri-produzione dell’umanità, che rendono possibile la vita stessa, che si prendono cura del mondo. […] Per dare una possibilità di sopravvivenza al mondo dobbiamo fare pace con la terra. Lo sappiamo fare. Fatecelo fare. Lo faremo anche per chi alla terra fa la guerra». Si legge nel documento Fare pace con la terra che La Casa delle donne di Ravenna, ha elaborato in occasione della manifestazione nazionale “Per la giustizia climatica e sociale” (6 maggio 2023).

Quei fili intrecciano alcuni temi ricorrenti, disarmo, antimilitarismo, obiezione alla guerra, ecopacifismo.

Ma non tutte le donne la pensano allo stesso modo. «Sono sicura che le donne al governo non permetterebbero la guerra». Affermava la fotografa Letizia Battaglia nel libro scritto insieme a Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia, (Feltrinelli, 2020). E invece no. Da settembre 2022 in Italia abbiamo, per la prima volta, una donna presidente del Consiglio (anche se vuole essere chiamata il presidente) e il suo governo ha continuato a fare la guerra, e con un Decreto Legge si è fatta autorizzare, a inviare armi in Ucraina con decreti che, fino al 31 dicembre 2023, non devono neppure passare in Parlamento, nonostante il ripudio della guerra, sancito all’articolo 11 della Costituzione italiana.

Di stravolgimenti della Costituzione parlò anche Teresa Mattei, la più giovane tra le ventuno donne elette all’Assemblea Costituente, una donna libera, espulsa nel 1938 dalle scuole del Regno perché antifascista e nel 1955 dal Partito Comunista perché antistalinista. In un’intervista del 2006, raccontò: «Al momento della votazione per l’Articolo 11, L’Italia ripudia la guerra, è stato scelto il termine più deciso e forte – tutte le donne che erano lì, ventuno, siamo scese nell’emiciclo e ci siamo strette le mani tutte insieme, eravamo una catena, e gli uomini hanno applaudito. […] Per questo, quando ora vedo tutti questi mezzucci per giustificare i nostri interventi italiani nelle varie guerre che aborriamo, io mi sento sconvolta perché penso a quel momento, penso a quelle parole e penso che se non sono le donne che difendono la pace prima di tutto non ci sarà un avvenire per il nostro paese e per tutti i paesi del mondo».

Disarmo, disarmo, disarmo!

Con questa parola, ripetuta tre volte, si concluse, la seconda domenica di maggio del 1870, l’appassionato comizio di Julia Warde Howe. La femminista e pacifista nordamericana, attiva in campagne contro la schiavitù, per i diritti economici e sociali delle donne e per la fine delle guerre aveva convocato a Boston un momento di protesta delle donne contro le guerre per proclamare il Giorno della Madre. In quell’occasione, disse: «Noi donne di qui proviamo troppa tenerezza per le donne di un qualsiasi altro paese per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro». […] «I nostri mariti non torneranno da noi con addosso la puzza del massacro, per ricevere carezze e applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti affinché disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro, sulla carità, la pietà e la pazienza. Dal seno di una terra devastata una voce si unisce alla nostra: disarmo, disarmo, disarmo!».

Pochi anni dopo, nel 1889, Berta Von Suttner, nel suo libro Abbasso le armi, anticipando di qualche anno quello che avrebbe poi affermato Gandhi, sosteneva «il disarmo totale di tutte le nazioni e l’istituzione di una corte d’arbitrato che risolvesse i conflitti internazionali facendo ricorso al diritto e alla non violenza».

A settembre 1914 fu convocato un Congresso internazionale femminile e fu pubblicato, su Jus Suffragii. Monthly organ of the International Woman Suffrage Alliance, un appello ai potenti a fermare l’imminente Guerra mondiale: «Noi, le donne del mondo, vediamo con apprensione ed angoscia la situazione presente in Europa che rischia di coinvolgere l’intero continente, se non l’intero mondo, nei disastri e negli orrori della guerra. In questa terribile ora, quando il destino dell’Europa dipende da decisioni che noi donne non abbiamo il potere di formare, noi, assumendo le responsabilità che ci vengono dall’essere madri delle generazioni future, non possiamo rimanere passive. […] In nessuno dei paesi immediatamente coinvolti nella minaccia della guerra le donne hanno il potere diretto di controllare i destini del loro paese. […] Noi donne di ventisei paesi, che ci siamo unite nell’International Women’s Suffrage Alliance con l’obiettivo di ottenere strumenti politici per condividere con gli uomini il potere che determina il destino delle nazioni, ci appelliamo a voi perché non lasciate intentato nessun metodo di conciliazione o di arbitraggio per risolvere le controversie internazionali, nessun metodo che possa aiutarci a prevenire l’annegamento nel sangue di metà del mondo civilizzato».

Il Congresso si tenne nell’aprile del 1915, quando donne provenienti da dodici paesi, non solo europei (le statunitensi arrivarono numerose a bordo di un transatlantico, dall’Italia partecipò Rosa Genoni), raggiunsero l’Aja, attraverso i confini di un continente in guerra, per discutere del ruolo delle donne nella diffusione di una cultura di pace, denunciare il carattere disumano e inutile delle guerre e individuare azioni per fermare la prima Guerra mondiale, ormai incominciata. In quell’occasione, il 28 aprile, si costituì la Wilpf – Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà, la più longeva organizzazione pacifista-femminista al mondo.

Nelle parole dell’attivista per il suffragio universale, Jane Addams, pronunciate a conclusione del Congresso, risuona l’attualità delle risoluzioni prese dalle donne convenute a L’Aja: «Il massacro di esseri umani su vasta scala, pianificato e legalizzato, rappresenta in questo momento la somma di tutti i mali. Come donne, proviamo un senso di rivolta morale contro la crudeltà e la devastazione della guerra. Noi donne siamo le custodi della vita e non consentiremo più alla sua sconsiderata distruzione. Come donne, a cui è stata affidata la cura delle generazioni future, dei deboli e dei disabili, non sopporteremo più senza protestare l’ulteriore aggravio della cura degli uomini invalidi e mutilati, delle donne impoverite e degli orfani che la guerra ci impone. […] non tollereremo che venga negato il primato della ragione e della giustizia attraverso cui la guerra oggi soffoca le forze morali del genere umano. Pertanto noi chiediamo che sia riconosciuto e rispettato il diritto di essere consultate su questioni che riguardano non solo la vita degli individui, ma anche delle nazioni e che alle donne sia data l’opportunità di decidere della guerra e della pace. […] Tra i punti della nostra risoluzione c’è la limitazione degli armamenti e la nazionalizzazione della produzione bellica, l’opposizione organizzata al militarismo, l’educazione della gioventù all’idea di pace, il controllo democratico della politica estera, […] l’unione tra le nazioni in alternativa all’equilibrio tra le potenze, […], l’eliminazione delle cause economiche della guerra».

Da allora le azioni della Wilpf per il disarmo universale e totale non si sono mai fermate, con importanti risultati internazionali, come la costruzione, insieme ad altre centinaia di associazioni nel mondo, dell’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican), vincitrice, nel 2017, del Nobel per la Pace.

Capitalismo e guerra

Noi femministe sappiamo bene che patriarcato e capitalismo si nutrono reciprocamente. Nata alla fine del secolo scorso, la Marcia Mondiale delle Donne individuava nella Globalizzazione neoliberista e patriarcale e nella guerra, una delle cause dell’accentuazione delle disuguaglianze di genere, del gap tra ricchi e poveri, tra paesi, popoli e territori creando o incrementando esclusione sociale, intolleranza odio e razzismo. La rete internazionale femminista in tre anni di impegno, in più di 150 paesi, aveva raccolto oltre 6.000 associazioni, con il proposito di lottare contro la guerra, la disuguaglianza sociale, l’oppressione di genere, il razzismo, l’omofobia, la violenza. Il 17 ottobre del 2000, nella Giornata internazionale di lotta alla povertà, una delegazione di 200 femministe della Marcia fu ricevuta all’Onu, mentre fuori dal Palazzo di vetro manifestavano migliaia di attiviste.

Rosa Luxemburg già nel 1914 aveva ben chiaro come il proletariato non potesse identificarsi mai con nessun campo militare. «Nella sua spinta all’appropriazione delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tutto il mondo, si procura i mezzi di produzione da tutti gli angoli della terra, li conquista o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme sociali». E ancora: «Oggi la guerra non funziona come un metodo dinamico per aiutare il giovane capitalismo in crescita. (…) L’odierna guerra mondiale nel suo complesso è una lotta di concorrenza del capitalismo già arrivato alla completa fioritura, per il dominio del mondo, per lo sfruttamento degli ultimi avanzi delle zone del mondo non ancora capitalistiche». Luxemburg cercò, inutilmente, di convincere i suoi compagni a non cedere al nazionalismo, a non votare i crediti di guerra, l’emissione di titoli di debito pubblico per finanziare le spese militari. E fu proprio la decisione presa dalla Socialdemocrazia che la portò a lasciare il partito, diventato un «cadavere maleodorante».

La guerra non è mai una soluzione

Lidia Menapace, ideatrice e fondatrice della Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre, scriveva nel 2011: «Non si può tacere, e lasciare il futuro nelle mani di governi corrotti, politici ignoranti, finanze che prosperano sulle sciagure e imprese che nascondono le condizioni degli impianti nucleari o dei pozzi sottomarini per non rimetterci nei profitti. Sarebbe da stupidi irresponsabili. È un lusso che non possiamo permetterci: tutti e tutte noi che non abbiamo potere, né soldi, né mezzi di comunicazione di massa, mettiamo dunque in gioco la nostra ragione, volontà, tenacia, generosità, come facemmo quando era necessario non cedere a Hitler e a Mussolini, sennò siamo corresponsabili della barbarie presente, anche se fossimo tutti e tutte il meglio della cultura arte e bellezza: tutto si offuscherebbe, appassirebbe, marcirebbe. La crisi capitalistico-patriarcale, strutturale globale produce barbarie: noi vogliamo un altro mondo possibile: Se non ora, quando?»

Oggi, ancor di più dovrebbe essere evidente a chi non ha interessi economici e geopolitici (purtroppo solo a poche e pochi parlamentari eletti a settembre 2022) che la guerra non è mai una soluzione. È piuttosto una delle principali cause delle crisi da cui il nostro sistema e la nostra società non riescono più a liberarsi, perché invade ogni ambito e spazio e, come ci ha insegnato Hannah Arendt, «La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri».

Luciana Castellina, presidente onoraria dell’Arci, in occasione della manifestazione di Europe for Peace, in piazza a Roma il 5 marzo 2022, ha detto, inascoltata: «Il criminale folle attacco della Russia all’Ucraina può avere conseguenze impensabili, soprattutto se i nostri governanti e i loro menestrelli continueranno a pensare che si debba indossare l’elmetto e intonare inni patriottici per decantare i noti “valori occidentali”, e, peggio, che aiuti la pace fornire armi ai ragazzi ucraini esponendoli a un inutile bagno di sangue quando sarebbe invece necessario ragionare su come si potrebbe essere efficaci nel contribuire ad un compromesso decente, non risolvendo e ricorrendo a iniziative irresponsabili».

Invece il mondo continua ad armare l’Ucraina e ad armarsi per altre guerre e altri massacri.

In Ucraina restano città rase al suolo, milioni di profughi sradicati, centinaia di migliaia di morti tra la popolazione civile e tra i giovani costretti a combattere, molti contro la loro volontà, legami familiari e parentali distrutti, macerie materiali e spirituali.

Salvare una città, un paese, un popolo dalla catastrofe non è segno di resa o di debolezza, ma di amore. Nessuna pace è “vergognosa”, nessuna condizione è inaccettabile per salvare una città, un paese, l’umanità. Lo abbiamo imparato leggendo Venezia salva di Simone Weil.

Obiezione alla guerra

«Io confesso la mia costante attività contro la guerra, che non ho condiviso i pesanti pestaggi delle persone di diversa etnia e nazionalità, fede, razza, orientamento sessuale, che ero presente all’atto cerimoniale con cui si mettevano i fiori sui carri armati diretti a Vukovar nel 1991 e a Pristina nel 1998, che ho sfamato donne e bambini nei campi profughi, nelle scuole, nelle chiese, nelle moschee, che ho spedito pacchi alle donne e agli uomini nelle cantine di Sarajevo occupata nel 1993, 1994, 1995, che per l’intero periodo di guerra ho attraversato i muri degli etnostati dei Balcani, poiché la solidarietà è la politica che interessa a me, che ho imparato la democrazia come sostegno alle sorelle, amiche, attiviste – donne albanesi, donne croate, donne rom, donne senza Stato, che per prima ho rifiutato i criminali di guerra dello Stato in cui vivo e poi quelli degli altri Stati, perché considero questo un atto politico responsabile e civile, che in ogni stagione dell’anno ho insistito perché si mettesse fine ai massacri, alla distruzione, alla pulizia etnica, all’evacuazione forzata della popolazione, allo stupro, che ho avuto cura degli altri mentre i patrioti si curavano di loro stessi».

Questo si legge nel volantino distribuito il 9 ottobre 1998 in piazza della Repubblica a Belgrado dalle Donne in nero che dal 1991, fino al mese di marzo 1999, con la loro presenza silenziosa, ogni settimana, hanno reso visibile la loro resistenza nonviolenta alla guerra.

Le donne da sempre sono alleate di obiettori e disertori. Anche ora in Ucraina, in Russia, in Bielorussia c’è chi crede nella nonviolenza come possibilità di resistenza civile, chi rifiuta la guerra, chi pratica l’obiezione di coscienza, chi diserta e vuole già oggi costruire la pace.

Kateryna Lanko, Darya Berg, Olga Karach, attiviste dei movimenti per la Pace e la nonviolenza dei paesi coinvolti nel conflitto a febbraio 2023 si sono incontrate in Italia, non potendolo fare nei loro paesi, ospiti del Movimento Nonviolento, nell’ambito della mobilitazione Europe for Peace. Hanno parlato di un progetto comune di Pace, anche in rappresentanza degli obiettori di coscienza dei loro paesi, dal momento che agli uomini è proibito uscire dai confini a causa del reclutamento militare. Le tre dirigenti pacifiste ci hanno chiesto di dare impulso alla Campagna internazionale Object War Campaign!, rivolta all’Unione Europea per chiedere che siano aperte le frontiere per garantire protezione e asilo a obiettori e disertori.

Ecopacifismo,

La guerra si sta affermando come unica forma di politica e mette a rischio la vita anche nei “dopoguerra” con la devastazione ambientale e con il pericolo dell’uso di armi nucleari, continuamente evocato.

E allora, subito, – accanto alla accorata denuncia delle decine di migliaia di morti e di feriti nelle due guerre in corso che coinvolgono il governo italiano con la vendita di armamenti all’Ucraina e a Israele, all’adesione alle campagne di sostegno agli obiettori di coscienza, alla solidarietà con i milioni di persone, prevalentemente donne, bambini e anziani costretti ad abbandonare il loro paese, alla richiesta di immediato “Cessate il fuoco!” – vogliamo porre attenzione anche a quello che la guerra provoca sull’ambiente. Che senso avrà parlare di ricostruzione quando l’habitat è già ora distrutto in profondità?

La strada per salvarci e salvare la vita sulla Terra, devastata da catastrofi climatiche, pandemie e guerre, ce l’hanno indicata tante donne che hanno lottato prima di noi. È quella dell’ecopacifismo delle donne, come afferma il documento politico, Non c’è più tempo. Per il pianeta, per il nostro mondo, per le nostre vite. Noi siamo la cura, pubblicato a febbraio 2021 dall’Assemblea della Magnolia: «Rivendichiamo di essere femministe e quindi contro le guerre, contro l’aumento delle spese militari e per la proibizione assoluta delle armi nucleari». Anche Harriet Otterloo, della sezione svedese della Wilpf ha dichiarato: «Se distruggiamo la Terra non ci sarà pace. Per questo il movimento ecologista è parte del movimento pacifista».

Già all’inizio del Novecento, Rosa Luxemburg «guardava al mondo come a un luogo di condivisione e di necessaria relazione tra le specie e gli individui». (Maria Rosa Cutrufelli, in Alternative per il socialismo, 2019).

«La nostra chiamata all’azione, la nostra chiamata per una trasformazione nonviolenta della società è basata sulla convinzione che la lotta per il disarmo, la pace, la giustizia sociale, la protezione del pianeta Terra e la realizzazione dei bisogni umani basilari e dei diritti umani sono una cosa sola, indivisibile». [Petra Kelly, 1988]

In questi giorni bui, voglio chiudere con le parole luminose di Robin Morgan, raccolte da Maria Nadotti in Cassandra non abita più qui (La Tartaruga Edizioni, 1996): «Pane. Un cielo pulito. Pace vera. Congedato l’esercito, abbondante il raccolto. […] Uguale, giusto e riconosciuto il lavoro. Piacere nella sfida che porta, concordi, a risolvere i problemi. La mano che si alza solo nel saluto. Interni – dei cuori, delle case, dei paesi – così solidi e sicuri da rendere finalmente superflua la sicurezza dei confini. E ovunque risate, sollecitudine, festa, danze, contentezza. Un paradiso umile, terrestre, ora. Noi lo renderemo reale, nostro, disponibile. Noi disegneremo la politica, la storia, la pace. Il miracolo è pronto. Credeteci. Siamo le donne che trasformeranno il mondo». [Celeste Grossi, delegata Politiche di genere Arci nazionale]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *