Organizzare il cambiamento, unire le lotte


Nel tardo pomeriggio di venerdì 8 aprile si è tenuta al teatro Seminarino di Bergamo la plenaria conclusiva della seconda giornata di eQua, intitolata La diseguaglianza e la guerra sono scelte politiche (e il cambiamento si organizza). Sono intervenuti Fabrizio Barca, del forum diseguaglianze e diversità, Giulio Marcon di Sbilanciamoci, Emanuele Felice, docente di politica ed economia alla Iulm, Monica di Sisto, della società della cura, Manuel Masucci, di Rete della conoscenza, Vanessa Pallucchi, portavoce del forum nazionale del terzo settore, Roberto Rossini, portavoce di Alleanza contro la povertà, Serena Vitucci, Up campagna salario minimo, Elly Schlein, vicepresidente e assessora alle politiche sociali dell’Emilia Romagna, e Christian Ferrari, portavoce della Cgil.

In programma era prevista la partecipazione di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, che per motivi personali non è potuto intervenire.
Raffaella Bolini ha introdotto la terza plenaria ribadendo il senso di eQua come congresso sulle disuguaglianze viste non come casualità ma come prodotti specifici del neoliberismo, accentuati dalle recenti crisi economica, sanitaria, climatica e ora anche bellica. Lottare contro la disparità sociale vuol dire opporsi all’insostenibile paradigma attuale ripartendo dalla società e dalle persone.
L’incontro del pomeriggio di venerdì 8 riguarda la messa in atto del cambiamento e le tattiche di rivoluzione dal basso, con le sue problematicità e le possibilità a cui apre.

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Fabrizio Barca è stato il prima ad intervenire effettivamente, seppur da remoto, affermando l’importanza delle associazioni nel rendere possibile la trasformazione tramite il contatto diretto col territorio.
Le disuguaglianze sono frutto di scelte politiche che vanno individuate ed i cui effetti devono essere decostruiti e rovesciate. Gli elementi principali che connotano il paradigma contemporaneo sono la mercantilizzazione, l’accentramento della conoscenza, l’egemonia tecnologica, l’appiattimento dei saperi territoriali, l’indebolimento del lavoro, la frammentazione del welfare e la colpevolizzazione dell’individuo nell’attribuire le responsabilità della crisi climatica (e infatti si parla di antropocene anziché capitalocene).
Contro questo modello serve redistribuire i saperi, ridare voce ai territori sul lavoro, democratizzare le politiche pubbliche anche in prospettiva di genere, dare potere e libertà ai giovani come motore di fiducia. Tutto ciò è possibile solo se il settore pubblico ha per missione strutturale la cooperazione e la co-progettazione.
Non basta l’azione sociale per superare le discriminazioni di razza, genere, classe e ecosistema, serve un doppio movimento glocale che connetta le località, si faccia parallelo e condiviso tra i settori, territorialmente come a livello nazionale. Per realizzare questa trasversalità bisogna non nascondersi dietro l’alibi della non rappresentanza politica per cominciare invece a costruire una costellazione che sul medio-lungo periodo possa essere un faro sociale per la popolazione e permetta un rinnovamento organico della classe dirigente.

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Walter Massa, di Arci Liguria, ha ripreso l’intervento di Barca ribadendo l’importanza delle associazioni per lavorare verso un mondo migliore; per approfondire ulteriormente la questione ha poi ceduto la parola a Giulio Marcon di Sbilanciamoci. Nelle parole del secondo ospite, è chiaro che le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente anche con la complicità di un mondo politico prono al profitto e capace di anestetizzare di fatto ogni critica sociale, per la gioia delle tasche di chi delle persone si disinteressa (ad esempio Leonardo Spa, il nome per eccellenza dell’industria bellica italiana). Aumenta la povertà, si arricchiscono esponenzialmente i ricchi.
Le statistiche però parlano solo di chi non ha risorse e privilegi sociali e la politica occulta questa diseguaglianza radicale evitando persino di tassare minimamente i ricchi, contribuendo ad accentuare un problema relativamente semplice da risolvere nell’immediato, sebbene la lotta andrebbe indirizzata contro il sistema che produce tali squilibri economici. Temi di prima rilevanza, riguardo il quale però l’associazionismo stesso fa troppo poco rumore: la parte sociale dovrebbe unire le spinte dal basso alzando una voce di denuncia contro questo sistema, prima ancora che gestire la realtà per com’è, per poter pensare e proporre un modello di sviluppo diverso.

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Emanuele Felice è intervenuto per tematizzare le diseguaglianze verticali (citate anche nella plenaria mattutina sul Pnrr), quelle cioè tra nord e sud. Disparità che vivono di stereotipi su un Meridione sottosviluppato e rallentante, ma che in realtà ha contribuito con i flussi migratori allo sviluppo anche del Centro-nord. Differenze che portano ad uno squilibrio anche politico, a danno dell’intendimento della democrazia e dell’essere società, che è profondamente messa in crisi dalle aree abbandonate, diseguali anche al proprio interno. Sud quindi come simbolo di una frattura profonda interna all’Occidente e della crisi dell’idealismo europeo comunitario.
L’amministrazione del Sud rende il Pnrr un pericolo più che unarisorsa, dato che le istituzioni meridionali rischiano di essere incapaci di gestire i fondi, approfondendo un divario che rischia di essere definitivamente incolmabile, con tutti i drammi sociali che ne possono conseguire.

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Celeste Grossi, nell’introdurre Monica di Sisto, ha rilevato l’importanza e la novità della parola convergenza come capacità di unire pensieri ma anche pratiche eterogenei ma capaci di amalgamarsi.
Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch di retorno dalla carovana Arci-Arcs a Leopoli, ha rilevato l’inadeguatezza del governo in questi tempi critici, il quale ha demonizzato il pacifismo per nascondere la recessione e l’incapacità di affrontare l’intersezione delle crisi.
Anziché ragionare di riconversione ecologica, disarmo e sanità pubblica, si sdoganano nucleare e carbone, si aumenta la spesa bellica e si fa campagna contro l’inefficienza delle istituzioni sanitarie territoriali. Contro questa deviazione da una realtà ormai perversa al profitto non serve un confronto di programmi chiusi ma, sulla scia del forum di Firenze di cui incombe il ventennale, un confronto nazionale aperto che porti ad un programma condiviso su larga scala negoziato a monte, non a valle.
Il progressivo abbassamento delle prospettive economiche, sociali e di vita non può andare bene all’associazionismo che, sul modello del Collettivo di fabbrica Gkn, deve prendere le redini della propria battaglia sociale aprendosi alla condivisione delle pratiche e, citando la lotta di Campi Bisenzio, “appiccicandosi ed insorgendo”.

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Forse per la prima volta in eQua hanno preso voce gli e le studentesse, con Manuel Masucci. Il portavoce di Rete della conoscenza ha ricordato come il capitalismo sia stato capace di assorbire pressoché ogni critica al suo modello, rintuzzando i movimenti ecologistici, così come i pacifisti e tutti i movimenti che hanno cercato di proporre una società alternativa. La logica del profitto ha strozzato sul nascere ogni proposta di ritorno al sociale, finendo per esasperare la forbice delle disparità e rendedo quasi perenne la (le) crisi. Unico appiglio contro questo fiume in piena, il territorio deve tornare ad essere riferimento per la comunità e le realtà associative hanno il compito di favorire la moltiplicazione di alleanze e convergenze dando spazio ai giovani. Questi ultimi hanno la potenzialità di essere nuove voci critiche di una realtà di sinistra che riduca l’affetto per il successo elettorale e si complessifichi nel nome dell’anticapitalismo e dell’intersezionalità.

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Voce dal Forum nazionale del terzo settore, è intervenuta Vanessa Pallucchi, che ha proposto una riflessione sul ruolo dei corpi intermedi, la cui posizione è sempre meno definita in un fluire politico difficile da contenere ed in cui è difficile trovare interlocutori. Per rendere il terzo settore corpo del sistema in una cultura che lo ignora a favore dell’antitesi (teorica) tra stato e mercato, serve in primo luogo una riflessione interna su ciò che si pensa sia questa entità del tessuto socioeconomico come soggetto politico. L’effetto sociale dipende dall’organizzazione, dalla concretezza nella liquidità sociale, riferimento all’interno del cambiamento e delle criticità del presente.

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Farsi corpo, condividere ma, soprattutto, evitare il conflitto d’interesse. Roberto Rossini ha aperto il proprio intervento parafrasando l’esperimento mentale della posizione iniziale connotata dal velo d’ignoranza proposto da John Rawls ne Una teoria della giustizia. Tenendo conto di tutto, di tutte e tutti, le decisioni sarebbero probabilmente diverse da quelle prese in un sistema strutturato sulle diseguaglianze; sicuramente, sarebbero prese più velocemente. Nel trentennio tra gli anni ’50 ed ’80 è stato trascurato il tema della povertà, relegato alla penombra dal credo del profitto; ma la figura sociale del povero non ha mai smesso di esistere e finché non si costruiranno percorsi situati di uscita dalla povertà, nella realizzazione dei diritti di ognuno, questo problema sociale non sarà mai realmente superato arrivando alla pienezza sociale sistemica.

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Serena Vitucci, di Up campagna per il salario minimo, ha ribadito l’assenza istituzionale nel corso della pandemia, che ha visto la quasi totalità delle misure assistenziali allestite per via volontaria da organizzazioni dal basso. L’avvento della guerra ha aumentato ancora le diseguaglianze arricchendo le superpotenze economiche tra cui Enel, Eni, Leonardo, ma il movimento dal basso deve chiedere, parafrasando il motto leninista, pace, pane e pianeta.
Così come c’è un’interconnessione tra i problemi sistemici frutto del capitalismo, così serve un filo conduttore delle lotte, intersezionali tra pacifismo, antifascismo, antirazzismo ed ecologismo per citarne solo alcune. Battaglie che devono partire dalla consapevolezza che le esigenze delle persone, al di là di classe, età, genere, provenienza ed esperienza politica, sono le medesime ed hanno una base concreta inevitabilmente centrale.

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Sostituto di Landini, al microfono è si è poi recato Christian Ferrari, della Cgil. In modo estremamente diretto, il sindacalista ha affermato che l’umanità è di fronte ad un bivio: pacifismo o guerra irrisolvibile con la violenza, se non con quella definitiva del nucleare.
A pagare un conflitto che è “tutto fuorché locale”, tra l’altro in un devastante uno-due con la pandemia, sono le persone, vittime e non, che pagano o con la vita o con un futuro sempre più precario e difficile. Non ci possono essere benefici in un sistema sociale di profitto che genera solo disagio sociale, a partire da una condizione lavorativa sempre più connotata da precarietà e sfruttamento.
La reazione politica, però, è troppo timida: bisogna imperativamente rimettere al centro la società nel suo rapporto, sempre più sbilanciato col profitto. Per la Cgil, chiaramente, questo mutamento non può che partire dal lavoro, all’ombra della consapevolezza che la conversione ecologica è necessaria immediatamente.

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Ultimo intervento quello da remoto di Elly Schlein, che ha ribadito la connessione delle lotte, degli obiettivi e, di conseguenza, la necessità di una trasversalità di valori e pratiche nel terzo settore. L’intervento del governo è tardivo, ma uno sforzo politico non si può negare, pur nella continua e giusta critica contro la sudditanza istituzionale alle logiche neoliberiste, e va riconosciuto nell’ottica della coprogettazione.
Spaziando alla necessità di riconoscere i diritti della persona, Schlein ha aperto una parentesi, molto applaudita, sull’importanza di universalizzare realmente le opportunità ed il riconoscimento dell’essere umano. Il caso della discriminazione di frontiera che vede passare all’est solo le persone ucraine dev’essere ritenuto un precedente: l’Europa dev’essere aperta a tutti e riconoscere tutte e tutti come portatori di diritti ed umanità. L’apertura delle frontiere per tutte e tutti non è più procrastinabile né giustificabile.

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Foto Ilfriuli.it

La plenaria serale di eQua ha costruito, sul piano ideale, un allineamento riguardo il tipo di pratiche da portare avanti in questi tempi di crisi ed in senso anticapitalista. Hanno parlato docenti, esperti di economia, attivisti ed attiviste per la pace, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, persone impegnate nella lotta ecologista. L’elemento chiave, in un momento di sovrapposizione delle crisi, è la convergenza delle singole battaglie, dal locale al piano nazionale e globale, per cercare di far fronte, per poi invertirli, agli effetti e alla struttura stessa del paradigma neoliberista, diseguale ed esclusivamente basato sul profitto, che sta distruggendo l’umanità come specie e come concetto. [Pietro Caresana, ecoinformazioni, foto di Beatriz Travieso e Pietro Caresana, ecoinformazioni]

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