eQua 2024/ Sguardi differenti sfidano il capitalismo

Il secondo giorno di eQua è una messa a fuoco di diverse problematiche, causa ed effetto di diseguaglianze di vario tipo. Non solo uno sguardo puramente esplorativo, però: la tre giorni di Arci vuole essere, nelle intenzioni e nel lavoro di costruzione di Carlo Testini e della commissione nazionale Diseguaglianze, diritti sociali e libertà di cui è responsabile, un punto di raccordo tra proposte di cambiamento e lavoro dinamico per metterle in pratica, facendo leva su cultura, mutualismo e attivismo, centri nevralgici profondamente caratterizzanti Arci come associazione, cui si affianca, abbracciandone la totalità di rifrazioni e pratiche sociali quotidiane, l’operato continuo del gruppo Politiche di genere coordinato da Celeste Grossi, responsabile nazionale del settore.
Oltre a questo approccio meravigliosamente trasversale e a modo proprio innovativo, eQua del 2024 è caratterizzata anche da un’altra novità: per la prima volta, grazie al progetto Eco Routes (in collaborazione con l’associazione Asud) , Arci non solo si interroga sulla sostenibilità e impatto ambientale, ma ne misura l’effettivo valore per lavorare sul miglioramento anche in questo senso delle proprie iniziative, ridisegnando i propri eventi e formando dirigenti e addette/i ai lavori in una prospettiva sempre più sostenibile.

Salute di Genere: a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

Il saluto di Massimo Cortesi, presidente Arci Lombardia e responsabile Arci Salute e memoria post-Covid, introduce al primo panel della giornata, che verte proprio sulla salute.
Le risorse limitate del paese (ma non per la guerra) contribuiscono ad allargare la forbice delle diseguaglianze, ancora più ampia se si guarda alle questioni di genere; il peso di ciò si fa sentire particolarmente in Lombardia, dove progressivamente si assiste ad una parificazione – normativa, economica ed esecutiva – tra sistema sanitario pubblico e privato: dall’esigenza forte di arrestare questa pericolosa deriva nasce il coordinamento La Lombardia SiCura, che attraverso raccolta firme, lavoro locale con le amministrazioni locali e promozione sul territorio è attivo in questi mesi proprio su questo.
Insieme a Cortesi, Maria Bagnis del circolo Arci bergamasco LiberaMente e Donatella Albini, medica e presidenta del Centro documentazione e informazione salute di genere di Brescia.
La prospettiva di genere si rivela particolarmente efficace per affrontare l’argomento della salute mentale: dall’800 infatti la cosiddetta “psichiatria umanistica” appaia la malattia mentale con la sessualità o l’intensa emozionalità stigmatizzata femminile. La “psichiatria scientifica”, nelle parole di Bagnis, non cambia molto la prospettiva miope: «la funzionalità ovarica» attraverso cui veniva valutato il corpo delle donne fino a qualche secolo fa riflette uno sguardo normalizzante tutto maschile, responsabile della costruzione di un sapere (sul corpo e la mente delle donne) profondamente viziato.
Bisogna aspettare Basaglia per vedere un tentativo di ricostruzione del quadro più completo in cui corpo, mente e situazione sociale vengono affrontati e percepiti, in particolar modo per le donne, in modo unitario, mettendo finalmente in reazione anche il contesto sociale (in molti casi studiati di povertà e degrado).
Le esperienze dei consultori autogestiti (in cui il racconto di storie di vita, autocoscienza, supporto amministrativo/legale e psicologico diventarono spina dorsale di queste istituzioni) o Noie del nostro corpo – Scritto dalle donne per le donne (scritto di un collettivo di Boston), vera e propria riappropriazione di un sapere femminile, contribuiscono accanto alle riforme legislative a scardinare negli ultimi decenni del secolo scorso l’imperante e praticamente esclusiva (fino a quel momento) cultura patriarcale e maschilista.
«L’unica riforma dell’Italia post-unitaria», nelle parole di Bobbio, quella di Basaglia punta a «restituire soggettività» a persone vive e parte della società, ascoltandone i bisogni e sogni per risolvere il problema invece di rimuoverli semplicemente dal tessuto comunitario quotidiano. Il compimento della riforma avrebbe significato un cambiamento del tessuto sociale attraverso la cura delle persone (e viceversa), e non si è (ancora) mai realizzato; la «medicina delle diagnosi e dei posti letto» è tuttora focalizzata più sulla cura della malattia che della salute del/della paziente, specialmente se si guarda alla «psichiatria delle residenze».
Assumere le differenze di genere come punto di vista primario vorrebbe dire, secondo Bagnis, scardinare proprio il paradigma ancora vigente (ribaltandone le dinamiche di potere/controllo anche farmacologico), attraversando trasversalmente i territori e la società per arrivare proprio alle persone – potenzialità, questa, propria di una associazione come Arci, per esempio.

Donatella Albini dichiara che toccare con mano carne e sangue delle persone, come succede nella sua professione, cambia il modo di vivere la politica e il modo di farla.
«Uguaglianza e equità sono i due pilastri del servizio sanitario nazionale»: differenti, ma in rapporto indissolubile tra loro, le due parole parlano di differenze e disegnano uno scenario in cui i desideri entrano nel lessico politico accanto ai bisogni. La medicina di genere si basa proprio sulla valorizzazione delle differenze come strumento di emancipazione e equità su scala globale (mai scordarsene): la salute sessuale e riproduttiva è necessario torni ad occupare le agende politiche e mediche nazionali, europee, mondiali.

La medicina di genere non è solo uno sguardo clinico a 360 gradi (includendo uomini, donne e qualsiasi altro genere), ma arriva a considerarne differenze non solo dal punto di vista fisico, ma anche guardando ad un diverso approccio di presa in carico di problemi diversi in base al contesto sociale e culturale da cui si proviene; solo così, ad esempio, si potrà dare una adeguata assistenza medica alle donne migranti.
Diritti sessuali e riproduttivi non sono solo “natalità” ma contraccezione gratuita (per ora, purtroppo, presente solo in 5 regioni su 21 e solo, misteriosamente, fino ai 26 anni), riforma dei consultori (in Lombardia “per le famiglie”, depauperati e assolutamente insufficienti) senza arrivare a parlare dell’interruzione di gravidanza, di diritto di autodeterminazione e scelta (mirabilmente scolpito ora nella costituzione francese), o di una legge sulla violenza ostetrica (proposta accolta da applausi generali in tutta la sala).
Si può interpretare la parola “natalità” anche come «riserva preziosa della capacità generativa delle donne: di pensiero e di carne e sangue». «Le donne sono il cuore pensante» (nelle parole di Maria Zambrano): l’esortazione della medica è di partire da qui, anche nel lavoro come associazione.

Lavoro e povertà di genere

La lente delle politiche di genere è efficace, come sottolinea Alice Graziano di Arci Torino, anche nell’esame della questione che coinvolge lavoro e povertà: non solo guardando ai numeri occupazionali, ma anche al problema della violenza perpetrata a livello economico: «”Autonomia economica” non è un sostantivo che possiamo declinare ancora completamente al femminile».
Il lavoro è uno strumento di emancipazione per e delle donne? Non ancora, secondo Esmeralda Rizzi, dell’ufficio politiche di genere della Cgil: lo dicono i dati sulla contrattazione della retribuzione (inesistente, dal punto di vista femminile) o sulle aspettative/prospettive di carriera lavorativa a parità di studi.
Creare una coscienza e una educazione economica è necessario dal Nord al Sud dell’Italia (pure protagonisti di dati e situazioni diverse); uomini e donne sono portatori e portatrici di modalità di lavoro e performance diverse, ma questa differenza viene annichilita da un sistema di valutazione appiattente, ancora una volta tutto maschile.
Ecco allora che disparità salariale (anche pensionistico), abbandono del lavoro per ampliamento del lavoro di cura privato e tipologia di occupazione sono tutti dati evidenti di una situazione di disuguaglianza di genere profondissima e generalmente minimizzata, non misurata né oggetto di riflessioni e riforme, presenti o future.
Marina De Angelis (ricercarice Inapp) approfondisce l’aspetto inerente al lavoro di cura, partendo da una interessante riflessione circa le statistiche e su come esse vengono compilate: pur trattando di temi «conosciuti» e «in apparenza ridondanti», i dati che vengono fuori non sono adeguatamente misurati, misurabili o addirittura conosciuti, soprattutto se si pensa proprio al lavoro di cura.
La mancanza di un punto di vista femminile nell’analisi e nella ricerca statistica contribuisce a perpetrare una visione, anche a livello culturale, parziale e limitata dell’intera società (si pensi ad esempio alla disparità nei congedi parentali), influenzando in maniera negativa anche le politiche di welfare, viziate anche da isolamento e difficoltà informativa di donne e persone in una situazione di marginalità sociale.
Come contrastare questo fenomeno? «Liberare il tempo delle donne lasciando liberi gli uomini di dedicarsi al lavoro di cura (es. aumentando congedi o la flessibilità oraria)» è una proposta che dimostra come le politiche di genere non sono fatte solo da donne per donne, ma abbracciano l’intera società.

Eleonora Rossi porta l’esperienza del circolo Arci Lato B come possibile esempio di associazionismo attivo: da circolo studentesco a circolo giovanile (in cui giovani donne e uomini crescono confrontandosi con le difficoltà del mondo del lavoro) con sportello legale e corso di alfabetizzazione dei diritti del lavoro (organizzato annualmente con la Cgil), la vita del circolo cambia radicalmente quando le difficoltà di intere generazioni non trovano risoluzione nelle politiche conservative attuate dai vari governi.
Mutualismo e politica attiva sono due aspetti di lotta per la conquista di modelli di potere differenti da quelli machisti e patriarcali ancora oggi presenti; questa lotta passa, secondo Graziano, attraverso lo sforzo di immaginare un mondo diverso – faticoso, ma non impossibile.
Per cambiare, però, è il paradigma di potere a dover necessariamente cambiare (e in questo senso il movimento femminista è un veicolo di questo approccio costruttivo) – altrimenti la presa di potere delle donne (al governo e ovunque) sarà sempre viziata da filtri, algoritmi e meccanismi intrinsecamente maschili. Suona familiare?

Carcere: focus sulla condizione delle donne

Il carcere come emergenza sociale è un argomento, secondo Sara Paoli di Arci Viterbo, estremamente marginale nel dibattito pubblico: il mondo della detenzione femminile viene trattato come eccezione, essendo costruito su un’esperienza maschile, ma le donne che lo attraversano sono comunque esistenti (cis e transgender).
«Sovraffollamento e condizioni disumane e degradanti devono essere assunte come responsabilità politica e sociale», soprattutto a fronte di segnali preoccupanti per lo stato di salute della democrazia (si pensi ai pacchetti sicurezza che riguardano un irrigidimento normativo sulla resistenza passiva o il preoccupante depontenziamento della legge che previene la tortura).

L’associazione Antigone, di cui Costanza Agnella fa parte, è fondamentale per verificare la condizione di detenzione, femminile e non: nel 2022 l’associazione ha deciso di portare in evidenza la situazione degli istituti femminili e misti con il report Dalla parte di Antigone.
Dal dato numerico (le donne rappresentano tra il 4 e il 5% della popolazione negli istituti di detenzione) alla storia della reclusione femminile (povertà, prostituzione, disagio psichico e sociale, come anche illustrato nel panel precedente) sempre all’insegna della «correzione punitiva e rieducativa del ruolo predefinito dalla società, normandone in senso protettivo i comportamenti sessuali e di idee», si arriva poi alla situazione contemporanea, che vede un piccolo numero di donne detenute in istituti femminili ed il resto in istituti misti (in spazi ricavati «per sottrazione da quelli maschili».
Agnella poi fornisce un quadro, attraverso i dati, ancora più definito: sulla situazione abitativa, leggermente migliore nelle camere di pernottamento (ad esempio, il 60% delle camere femminili ha una doccia, mentre quelle maschili sono il 47%), sul disagio psichico (12,4%), sulla tipologia di reati compiuta
(soprattutto reati contro il patrimonio, violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti, criminalità organizzata), sul lavoro in carcere (le donne lavorano mediamente di più degli uomini, ma sono coinvolte in attività lavorative relative a settori stereotipicamente femminili come lavanderia o stireria e accedono molto meno degli uomini alle attività di istruzione).
Ancora più delicata è la situazione delle donne transgender (70 recluse in sezioni protette di istituti maschili, Antigone rileva senso di abbandono e difficoltà reinserimento sociale adeguato) o delle minori (i cui numeri sono in aumento).
Guardare alle donne, anche negli istituti di detenzione, mostra ancora una volta una radicalizzazione di discriminazioni che poi riguardano chiunque: di conseguenza si deve partire da quel settore specifico per pensare a politiche di miglioramento e decarcerizzazione per tutte e tutti, tenendo anche conto del «diritto di reinserimento secondo prospettive e desideri personali».

L’esperienza del circolo Arci Corpi Bollati, nelle parole di Giulia Bellani e Carlo Bussetti, è un esempio di come sia possibile immaginare modi diversi di reinserimento e attività culturali per le persone in carcere: la compagnia teatrale, nata tra le mura del carcere di Bollate e successivamente diventata circolo Arci,
ha portato nelle persone che vi hanno preso parte una condizione di libertà mentale salvifica per le prospettive di vita esterne, riconoscendo una propria vulnerabilità ma anche una nuova voglia di immaginare futuri diversi, liberi. Spazio di incontro di tante umanità, Corpi Bollati diventa fondamentale tramite tra “dentro” e “fuori” e palcoscenico per permettere di essere visti sotto una luce differente.

Francesco Maisto, infine, spiega brevemente la figura del Garante per le persone private della libertà personale, ruolo che ricopre in prima persona nella città di Milano: pur non avendo poteri, questa “carica” è diventata con gli anni (anche se non ovunque allo stesso modo, in mancanza di una legislazione unitaria nazionale), un tramite importante tra le persone detenute e le autorità giudiziarie prima, dopo e durante il processo, monitorando le condizioni di dignità, umanità e salute, agendo per favorire contaminazioni culturali in caso di etnie e nazionalità diverse e ponendosi come voce aggiuntiva ad esempio nel dibattito riguardante la «sentenza sull’affettività».

Spazi urbani di cura e futuro

Il pomeriggio del secondo giorno di eQua si è aperto riprendendo il filo rosso che già si dipanava nella plenaria di apertura, riferendo lo sguardo di genere che connota questa edizione al contesto urbano.
Serena Olcuire, ricercatrice, architetta ed urbanista, ha tematizzato come lo spazio urbano (non solo quello metropolitano) sia intrinsecamente violento non solo sul piano della «sicurezza di genere» ma anche, più strutturalmente, «sottraendo spazio e tempo ai e – soprattutto – alle cittadine».
Ancora una volta, lo sguardo è molteplice e la città diventa un nodo di patriarcato in famiglia, gender gap sul lavoro e ingiustizia socioambientale che vede le soggettività non maschili discriminate dal punto di vista materiale ed immateriale. Non solo infatti la città è sostanzialmente maschile fin dalla toponomastica, con solo il 2/3% di vie e piazze dedicate a donne, ma la dinamica di micropotere su cui si innestano securitarismo e patriarcato rende di fatto inaccessibili perché insicuri per le donne tutta una serie di spazi.
La città è dunque uno spazio di segregazione e insicurezza, ma anche di difficoltà di emancipazione: la difficoltà di accesso alla casa e la precarizzazione degli spazi transfemministi sono i due veicoli principali tramite cui il discorso urbano relega le soggettività non maschili, che vengono sistematicamente messe a tacere sottraendo loro lo spazio per esistere e per generare percorsi di vita ed abitabilità alternativi rispetto al modello finanziarizzato e turistificante che ha interessato i maggiori centri italiani in questi ultimi anni.

L’esigenza che si pone nel quadro di disgregazione e marginalizzazione ripetutamente citate nel corso di questa eQua 2024, allora, è quella di costruire alleanze nelle e tra le città. Bisogna cioè stabilire e scoprire punti di connessione (non sempre già evidenti) e collegare le diverse realtà urbane e non in chiave profondamente intersezionale rispetto alle varie lotte ma anche rispetto al dialogo col settore pubblico.
Spazio urbano significa anche spazio di lavoro; parlare di lavoro in prospettiva di genere allora significa, nelle parole di Celeste Grossi, responsabile Arci per le politiche di genere e coordinatrice del panel, guardare a cosa succede all’interno delle case, in particolare rispetto alla cura domestica, e mettere il privato in dialettica con la questione abitativa.

Nell’anno di discussione, a Milano, del Piano di governo del territorio, è fondamentale discutere il ruolo delle donne nelle città. Luca Stanzione, Segretario generale di Cgil, propone di impugnare una visione di «città funzionale all’uomo» e ribaltarla, renderla più giusta. Per farlo è necessario riprendere la seconda dimensione rilevata da Olcuire nel proprio intervento: la battaglia per un lavoro giusto è una battaglia sostanzialmente di tempo. Gli uomini hanno più tempo e per colmare questo gap bisogna sfidare il capitalismo, a partire dai contratti di lavoro, non solo sul salario, ma anche sulle condizioni generali di vita, a partire dall’abitazione.
C’è poi la dimensione della vita in casa, dell’abitare, che può essere ripensata oltre alla lottizzazione monofamiliare per intraprendere una collettivizzazione degli spazi e del tempo che, sul modello di esperienze già viste nel secondo ‘900, liberi o quantomeno alleggerisca le catene di genere e di profitto che attualmente rovinano la vita a lavoratori e lavoratrici di tutta Italia.

Il tema ulteriore, ha sottolineato Grossi, è poi quello del lavorare meno; un aspetto che rilancia una dimensione non solo di adattamento ma anche di desiderio ed immaginazione di un modo di vivere altro, e migliore, per tutte e tutti.
LatoB, un circolo Arci di Milano, è un esempio di esperienza costruita dal basso in continuo rapporto con una grande metropoli in continuo mutamento. Serena Vitucci ne è stata la portavoce a eQua, mettendo al centro il sentito tema degli affitti.
In una città in cui la richiesta è altissima, il caro-affitti è un problema che sta portando a ragionare sempre più realtà sulla necessità di porre un tetto alle locazioni. I vantaggi, come rilevava già la prima relatrice, sarebbero fortemente parificanti in prospettiva di genere. Per ottenere questo tipo di cambiamenti, però, è fondamentale fare massa critica; un corpo riflessivo che, rispetto a Milano, dovrebbe analizzare l’abitare ed i suoi modelli a tutto campo, problematizzando e garantendo l’equità, la sostenibilità e l’accessibilità anche di progetti futuristici come la fantomatica “città in 15 minuti” di cui ultimamente tanto si parla.

Progettare, insomma, non è solo un’istanza urbanistica ed edilizia: una città di genere è frutto sì di consapevolezza architettonica del territorio, ma anche di capacità immaginativa e desiderio, di connessione di rete e di volontà di costruire spazi e tempi sicuri, accessibili e giusti per le persone che li creano, attraversano e vivono.

Digitale e disuguaglianze di genere

Nella prima giornata si è più volte citato il concetto di “flusso”: economico, informazionale, digitale, il flusso è ormai una buona immagine per rappresentare la pervasitivà, rapidità ma anche omologazione e poca controllabilità della società contemporanea.
In questo senso, l’Arci, come sotolineato da Rossella Vigneri, responsabile Arci per lo sviluppo associativo a livello nazionale, cerca di aggiornarsi affrontando una di queste dimensioni astratto-liquide, il digitale, dedicandogli un incontro all’interno di eQua. Una scelta fondata, se è vero che, come ha affermato in apertura, i flussi digitali sono il nuovo principale veicolo di diseguaglianze.

Cecilia Manzo, docente di Sociologia economia all’Università Cattolica, ha sottolineato come, a fronte di un aumento della presenza femminile nei settori altamente qualificati, il digitale si è rivelato incapace di mantenere le «promesse di democraticizzazione» che portava con sé. Nel digitale, le differenze rimangono forti sia nella gig economy, nei cosiddetti “lavoretti”, che nelle dinamiche discriminanti riprodotte dagli algoritmi delle piattaforme di lavoro.
Per contro, un elemento positivo è l’ampliamento di spazi di lavoro creati dal basso attraverso la dimensione online in termini di organizzazione e diffusione.

Lavinia Hanay Raja, del gruppo di ricerca filosofico-informatica Ippolita, ha approfondito la dimensione discriminante del digitale attraverso la sua prospettiva umanistica-hackeristica (dove “hacker” non è da intendersi in senso negativo), pregna di anticapitalismo e femminismo.
«Politicamente, l’incontro tra femminismo e tecnologie è un appuntamento mancato», cosa che comunque non impedisce di ragionare dello spazio dato al femminile e di riflettere sulle pratiche consentite o impedite dal virtuale rispetto alle questioni di genere.
Sono i centri antiviolenza la prospettiva privilegiata da cui il gruppo Ippolita osserva il peso delle tecnologie digitali sull’azione patriarcale. Esse hanno infatti un ruolo fragilizzante enorme soprattutto in situazione di abuso, in cui il capitalismo della sorveglianza – in cui tutte e tutti siamo immerse – fa sentire fortemente le sue implicazioni. Una prospettiva riflessiva in questo senso pone la necessità di pensare, agire e socializzare delle alternative a questa dinamica.

Il primo passo da fare, ha rilevato Marta Palvarini, sviluppatrice ludica e studiosa delle culture digitali, è spostare le battaglie sindacali offline nel mondo digitale. La digitalizzazione del lavoro infatti è sinonimo di precarizzazione, e questo la rende giocoforza motore di diseguaglianze.
Per le soggettività non maschili, la trappola del digitale scatta nel momento in cui la realtà concreta risulta discriminante (anche dal punto di vista delle barriere architettoniche) e pericolosa al punto di costringere le soggettività non conformi a “spostare” ampie dimensioni della propria esistenza nel virtuale. Sulla vivibilità degli spazi analogici, però, sono poche le realtà che si stanno muovendo concretamente.
La domanda che un’organizzazione come Arci si può porre di fronte a questa mole di implicazioni riguarda allora come fare, come costruire alternative anche all’interno di queste dinamiche prettamente contemporanee.

Secondo le relatrici, la conoscenza è il primo e fondamentale mezzo di azione. Inoltre, data la natura di ente sociale e di aggregazione dei circoli, è fondamentale costruire socialità anche nel digitale, anche facendosi comunità educante controcorrente rispetto al capitalismo della sorveglianza che il digitale veicola.
Palvarini propone di ricostruire spazi analogici come alternativa all’egemonia digitale ed espropriare il proprio tempo in ottica di gioco («cazzeggiare contro il capitalismo» strappa ancora una volta applausi entusiasti). Come sottolivello, la dimensione ludica porta con sé, in analogico, un’accessibilità ed autorganizzazione esponenzialmente maggiore rispetto alla complessità di progettazione videoludica; ciò non è mero escapismo, ma diventa un’occasione di riflessione sul presente che la classe politica di sinistra ha erroneamente bollato come astratta immaginazione. Il tema della narrazione alternativa emerge, come già aveva fatto nel panel precedente, come strumento politico in una fase storica in cui quella dominante, di destra, è una narrazione fallimentare.
Per fare tutto ciò, occorre essere consci del testo (digitale) e del contesto (online, offline e onlife). Il verbo della formazione – così come quello dell’immaginazione – è, parafrasando Bell Hooks, «costruire»; ma costruire spazi, narrazioni e saperi non può che essere co-costruire, ragionando e solo secondariamente raggiungendo la soluzione tecnica.
Affidarsi alla tecnica prima che alla politica significa accettare di essere eteronormate: la formazione serve ad essere autonome e nasce dalle proprie esigenze.

Secondo Hanay Raja, infrastrutture (siti e posta), strumenti di lavoro (Zoom e Meet, ad esempio, sconsigliate dalla relatrice) e lavoro con smartphone e social devono essere i punti di riflessione anche a livello associativo per Arci, che potrebbe invece volgersi verso pratiche che utilizzino le piattaforme e i mezzi tecnologici in una prospettiva di indipendenza rispetto alle macro-piattaforme e alla svendita dei propri dati.
In generale, per rimettere al centro il desiderio delle persone e costruire un futuro che sfugga al proprio destino di collasso, la proposta è quella di «socializzare i poteri senza creare saperi».

Mutualismo e organizzazione delle donne

L’ultimo panel della giornata, coordinato da Lucia Caponera (Arci Roma) e Vito Scalisi (referente nazionale mutualismo), sintetizza ancora una volta lo sguardo di genere con l’idea di mutualismo che negli ultimi anni ha pervaso sempre di più le attività dell’associazione davvero ad ogni livello.
Autorganizzazione e autofinanziamento sono connessi in maniera forte a una riclassificazione anche linguistica del mutualismo, che mira a contestualizzare queste due pratiche anche nella società moderna. Gli esempi delle vertenze RiMaflow e Gkn possono dare una prospettiva diversa rispetto al conflitto anche tra proprietà e lavoratori: attraverso la strutturazione di uno spazio associativo (luogo di scambio e dibattito di idee tra lavoratrici/lavoratori, socie/soci) sia possibile affrontare in maniera migliore e più efficaci le situazioni di scontro e lotta con le proprietà industriali.
L’autorganizzazione femminista, storicamente, precede ad esempio l’istituzionalizzazione di alcuni spazi come i consultori e può anch’essa mostrare prospettive differenti rispetto alla «normalità attuale»: quando succede si presentano prospettive di mutuo soccorso, spesso all’interno degli ambienti stessi di lavoro, allora come oggi innovative (sviluppate grazie all’analisi del contesto sociale e alla messa in relazione di questo con il territorio e l’evolversi delle vicende umane).

Gigi Malabarba di RiMaflow, dopo un breve racconto della propria testimonianza di uomo sul rapporto tra consultori autogestiti, movimenti femministi e luoghi di lavoro negli anni ’70, ragiona proprio sulla sintesi possibile di questi tre elementi in un contesto come quello attuale, in cui il capitalismo liberista ha ridotto l’estensione e l’efficacia del welfare (al quale si risponde solo in maniera sussidiaria): occorre intervenire sugli spazi lasciati scoperti riappropriandosene con protagonismo dal basso, autogestione – e in questo senso RiMaflow e ex-Gkn possono risultare laboratori e fucine di questo – costruendo una cassa di autoresistenza e attivando di meccanismi di sostegno e contributo per i lavoratori e lavoratrici sotto vertenza, fornendo assistenza sanitaria e percorsi psicologici (come nel caso della Brigata Basaglia), arrivando fino al doposcuola di bambini e bambine o alla mensa popolare.
L’aiuto reciproco dal basso è un collante potente che impedisce ad un fronte di lotta di sfaldarsi schiacciato da esigenze quotidiane pressanti, oltre ad agire efficacemente – spesso in sinergia con altre associazioni come Arci – nel rapporto col territorio, come successo in momenti difficili come le recenti alluvioni proprio della piana dei Campi di Bisenzio.
Ricostruire un’industrializzazione diversa e di riqualificazione ecologica non solo è possibile, secondo Malabarba, ma auspicabile anche dal punto di vista delle politiche di genere: sottrarre capitale in modo da costruire alternative migliori per tutte e tutti non è per forza sinonimo di contrasto e antagonismo, ma di cambiamento radicale di economia e rotta. E lotta.


L’esperienza di Lucha y siesta sembra proprio andare in questa direzione e ha scosso, sin dalla nascita, il tessuto urbano di Roma e non solo: lo racconta Teresa Maisano, attivista proprio di Lucha y siesta, parlando di «realtà liberata e liberazione di corpi e esperienze, spazio simbolico di lotta e resistenza alla cultura dello stupro».
Il mondo di LyS è un arcipelago di persone e esperienze, comunità e percorsi: il mutualismo diventa quindi sorellanza trasversale e intersezionale, collettività resistente alle logiche capitaliste e di sottrazione all’isolamento alla violenza di genere. Bene comune autofondato e autogestito, questo spazio è in rete dentro e fuori se stesso (a livello di prossimità urbana e anche con altre case delle donne in Italia): non esistono «servizi» ma «percorsi di liberazione e autoaffermazione», contrapponendo creatività e relazioni reciproche in ottica transfemminista al conflitto muscolare e maschilista.
«Lucha è diffusa»: il lavoro del centro è in sinergia con il lavoro di rete resistente dei consultori delle donne e delle libere soggettività, in cui i corpi sono di nuovo al centro di una riflessione sulla costruzione di spazi liberi e di scambi (è esempio di questo l’assemblee di donne nei consultori di Roma) non più in ottica meramente assistenzialista.

Elisa Vignemi del Centro donna di Collegno (attivo anche nel Comitato Val di Susa) porta invece un differente tipo di esperienza: nato 22 anni fa con l’idea di mutualismo femminile bene in testa, il centro, poi diventato circolo Arci, con gli anni è diventato sempre più strutturato e strutturale fino a diventare un centro antiviolenza riconosciuto dalla Regione. Essere un circolo Arci permette al centro di sbilanciarsi anche verso orizzonti più ampi, includenti cultura e ricreazione come parte integrante di un percorso di antiviolenza, in profonda e sinergica relazione – per una volta non conflittuale, sembra – con consultori, istituzioni e asl soprattutto nella costruzione di tavoli di lavoro operativi.
[articolo di Sara Sostini e Pietro Caresana; foto di Dario Onofrio; video di Gianpaolo Rosso]

Guarda tutte le foto di Dario Onofrio della seconda giornata di eQua.
Presto online tutti i video di Gianpaolo Rosso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *