Chiavacci: Una riforma che non ci piace

logo-comitato-no14In un’aula semideserta si è concluso l’iter di approvazione della riforma costituzionale. La Costituzione è da sempre ispiratrice del nostro agire e faremo il possibile per alimentare la discussione e promuovere la conoscenza sull’oggetto del referendum.

Continueremo a svolgere il ruolo che è proprio di uno spazio pubblico: creare occasioni di dibattito nei nostri circoli, fuori da una logica di schieramento politico.  Siamo consapevoli che la seconda parte della Costituzione ha bisogno di modifiche per aiutare un processo di riavvicinamento tra i cittadini e la politica. Ma la necessità di una riforma non può indurre ad accettare qualsiasi proposta. Questa riforma non ci piace. E la prima cosa che non ci piace è il tentativo di impostare l’appuntamento referendario come un ‘plebiscito’ sul consenso al Governo e al premier. C’è poi un’altra grossa questione: c’è stata una sorta di tradimento di uno dei punti fondanti della democrazia costituzionale nel momento in cui si è voluto riformare la Carta con una iniziativa del Governo, e non del Parlamento. E non ci è parso un buon esercizio nemmeno brandire ‘mediaticamente’ la riduzione dei costi della politica come uno dei motivi principali per il superamento del bicameralismo perfetto (tra l’altro, allora, si sarebbe potuto ridurre il numero dei deputati e prendere decisioni diverse sulla composizione del Senato).Ma quel che consideriamo più negativo è l’abbinamento di questa riforma a una legge elettorale come l’Italicum. Tramite questo combinato, il rischio di un accentramento di poteri nelle mani del Governo diventa realtà, e si sceglie di privilegiare la cosiddetta ‘governabilità a scapito della rappresentanza e della centralità del Parlamento. L’effetto finale è quello di una riduzione sostanziale del potere di decisione dei cittadini (solo chi prenderà il premio di maggioranza avrà deputati scelti dai cittadini; per il resto saranno eletti solo i capilista bloccati, decisi dalle segreterie dei partiti), quando invece le società democratiche complesse hanno oggi bisogno di recuperare alla partecipazione milioni di cittadine e cittadini che si sono allontanati dalla politica e dalle istituzioni. In virtù di questo combinato disposto, diventa concreto il pericolo che chi prenderà la maggioranza possa votarsi Presidente della Repubblica, membri della Corte costituzionale, Commissione di vigilanza Rai. Il Senato viene escluso nelle deliberazioni dello Stato di guerra.

L’intero impianto insomma si fonda sull’idea di una democrazia decidente, che potrà comprimere ulteriormente la partecipazione e la volontà dei cittadini. E per l’Arci questi non sono aspetti secondari. Al centro della nostra identità c’è la promozione della partecipazione, e dunque ci preoccupa molto che questo tema sia stato trascurato.

Conosciamo fatica e fascino dell’esercizio della democrazia, soprattutto se ad agirla sono persone impegnate volontariamente ad animare le proprie comunità, per offrire risposte ai bisogni e ai desideri di cittadine e cittadini.

Sappiamo come in questi anni tutto si sia modificato, quanta frammentazione e sfiducia nelle istituzioni e nella politica attraversi la società italiana.

Ma sappiamo anche che qualsiasi riforma della Costituzione, del funzionamento degli organi dello Stato, dei meccanismi elettorali e, più in generale, delle regole alla base della nostra democrazia, non può risolvere nessuna crisi se non tiene conto della complessità del nostro Paese, dei processi di selezione della classe dirigente, della stessa democrazia dei partiti.

Per questo in questi mesi inviteremo il più ampio numero di persone a confrontarsi. Spiegheremo le ragioni del nostro dissenso e ribadiremo che la nostra Costituzione «non è scritta sulla sabbia». [Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci]

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